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MORRO DE SÃO PAULO

Spiagge da (s)ballo

 

A due ore di traghetto da Salvador de Bahia, il Morro de São Paulo rappresenta un bel posto dove rilassarsi di giorno e far bisboccia di notte. Sempre sulla praia

(pubblicato su Panorama Travel – marzo 2007)

 

 

Maurilio Barozzi

 

 

Casella di testo:  Barista in un chiosco della Primera praiaAlle cinque e mezza del mattino me ne sto seduto tranquillo su un muretto nei pressi del Faro. C’è la miglior vista dell’isola: le spiagge spuntano da una fitta selva di palme verdoni e il mare è cristallino che sembra Caraibi. Di solito la gente viene qui al tramonto per vedere la silhouette delle barche che rientrano dalla pesca, cullate contro il sole rosso; ma all’alba è più riservato: non c’è nessuno a parte due ubriachi che dormono nella sabbia.

 

Dopo un estenuante party sulla spiaggia, qualche minuto prima me ne ero salito mezzo barcollante a piedi scalzi percorrendo il ripido sentiero di sabbia (qui asfalto, auto e bus te li scordi). Poco prima avevo fatto tappa al baretto aperto 24 ore in cima alla salita che porta sulla via principale scavata tra negozietti, osterie, pousade, ristoranti. Nel tardo pomeriggio è pieno di turisti che bevono aperitivi sui balconcini delle locande e l’odore dolciastro della frutta che si usa per preparare i cocktail esotici ti arriva a ondate. Viceversa, qualche minuto fa c’erano solo tre tipi, incollati alla tivù del bar, a rincoglionirsi del tutto col Vale-tudo, una specie di wrestling. Roba per segaioli. Ho comperato una bottiglia di cachaça e sono arrivato fino al faro.

La cachaça, un distillato di canna da zucchero paragonabile alla nostra grappa, serve per combattere il malessere post sbornia, che in portoghese si chiama ressaca. A raccontarla giusta, qui la ricetta è mezzo bicchiere di cachaça e un po’ di sale, ma col sale fa davvero schifo e, a giudicare dall’aspetto dei due indigeni che stanno ronfando per terra, opterei per non divulgare tali rimedi. Diciamo piuttosto che la cachaça mi serve per mantenere uno stato di intorpidimento controllato.

 

Casella di testo:  
Taxisti al Morro
Una ragazza, una negretta dai capelli corti, si avvicina. Porta un prendisole con la bandiera brasiliana e ciabatte infradito. Vestono tutti così, qui, sbattendosene di griffes, firme e balle varie: l’unica moda sono i colori verde e giallo del Brasile, esibiti in ogni dove. Le sue caviglie sono inzaccherate: ipotizzo che non si sia appena alzata, a occhio e croce ha passato la notte ballando al chiaro di luna. Le porgo la bottiglia, «contro la ressaca», giustifico. Dice che non beve cachaça, che preferisce la caipirinha. «Proprio come Watson», ribatto. Per cancellare il punto interrogativo che le si è stampato in fronte, racconto che fu Watson, aiutante di Sherlock Holmes, ad inventare la caipirinha quando furono in Brasile per risolvere il difficile caso di un violino Stradivari sparito. Il giorno seguente ad una sbronza colossale cercarono rimedio nel chiodo-scaccia-chiodo. Ma Watson non riusciva a bere cachaça pura, così se la fece allungare con un po’ di limone. Ancora no: troppo aspra. Allora zucchero. Ecco così va. Un avventore incuriosito disse al suo amico: «Hai visto cosa beve quello?». L’altro: «Chi? Il caipira? (sarebbe come dire il cafone)». «No, quello piccolo, il caipirinha». Lo so, è una puttanata, perdipiù nemmeno originale (l’ha inventata lo scrittore carioca Jo Soares), ma alle donne piacciono ‘ste cazzate. E infatti si mette a ridere. E si siede.

 

Domanda se sono stato al Toca de Morcego, la disco del Farol.

«Não, na Segunda praia».

«Oh, que lindo!», fa lei. Racconta che lì le feste sono sempre splendide, ma che il carnevale è unico: «Si balla a piedi scalzi sulla sabbia della piazza Lima di fronte alla chiesa di Nossa Senhora da Luz, e dappertutto è loucura (pazzia). Si beve e si chiacchiera con gli stanieri in portunhol».

«Portunhol?».

Ridacchia spiegando che chiamano così quello strano idioma, un po’ portoghese, un po’ spagnolo, un po’ qualcos’altro, con cui gli stranieri comunicano a Bahia.

Mi chiede se sono del sud, di Florianopolis o di Porto Alegre.

Casella di testo:  
La Tercera praia del Morro de São Paulo
«No, sono italiano e sono qui per riposare. Vedi, ora me ne sto un po’ qui a guardare l’alba, poi andrò in spiaggia, mi butterò su una sdraio e mi addormenterò sotto l’ombrellone. Quando mi sveglierò, mi incamminerò lungo il sentiero verso la Terceira praia, mi tufferò e farò una bella nuotata fino all’isolotto di fronte, per rinfrescarmi. Poi tornerò, mi fermerò a uno dei variopinti chioschi sulla spiaggia ad annusare l’odore del cocco e prendere una birra gelata con un paio d’ostriche fresche, appena pescate. Due gocce di limone e via, con la lingua: il sapore del mare ti entra nel palato, nel naso, nella gola. Dunque, saltellando per non scottarmi i piedi sulla sabbia candida e rovente, sistemerò il mio telo e mi farò cuocere dal sole. Al tramonto vagabonderò a cavallo per l’isola, in mezzo al frusciare delle palme, e lo farò galoppare lungo la spiaggia. Che ne dici del programma?».

Lei fa spallucce. Non pare particolarmente entusiasta del relax. Preferisce la bisboccia della sera. E insiste sul carnevale. Niente di strano: in Brasile si comincia a parlare di carnevale subito dopo Capodanno e si smette a giugno. È un cortocircuito cerebrale che innesca insperati bagliori nella mia afasia da ressaca.

Ripenso alla festa passata a Salvador, due ore e mezza di traghetto da qui. Alla stravaganza di chi spende cifre esorbitanti per partecipare. Lo dice anche la famosissima canzone di Tom Jobim: la gente lavora tutto l’anno per un momento che farà volare la fantasia. E renderà felici. Addirittura molti si trasferiscono dai parenti per affittare la propria casa ai turisti a tre-quattrocento reais al giorno (circa 150 euro). E recuperare il necessario per godere del carnevale. Potrà anche sembrare una follia, ma, davvero, non si può mancare.

Casella di testo:  
La via principale del Morro de São Paulo
Lungo la strada litoranea di Salvador, enormi camion (trios eletricos) procedono a passo di tartaruga. Sopra ognuno c’è un gruppo musicale che suona. Tutto attorno, sulla via, inservienti delimitano un’area: lì accede solo chi indossa la abadà o camiseta (maglietta) del bloco (i fan del gruppo in questione). È proprio la maglietta (che poi è una canottiera) a fare da biglietto d’ingresso. Ti presenti lì con la canotta del complesso e sei dentro, schiacciato come una sardina nell’accaldato delirio, con musica sparata, culi shakerati al ritmo del pagode, mani che ti toccano dappertutto ed è meglio che i soldi te li ficchi da qualche parte che non sia troppo facile da raggiungere, se vuoi sperare di ritrovarli quando ti serviranno.

Sul trio eletrico, assieme al gruppo musicale, ci sono ballerini in maschera e sotto il finimondo che avanza sambando, pagodando, bevendo birra, saltando, spingendo, cantando. È lì, nel bloco, che si gode la festa, anche se può essere molto d’aiuto un fisico da rugbista. Ai bordi, fiumi di persone che guardano. E venditori di birra a un real la lattina.

Ma cosa sto a fare? Racconto tutto questo alla negretta che il carnevale di Salvador lo conoscerà mille volte meglio di me? Mi limito a un serafico: «Fui em Salvador».

L’impietoso sole tropicale comincia a scaldare davvero. La porta d’ingresso del Morro de São Paulo – rovine di un porticato – si fa largo tra la vegetazione e con lei ordisce congiure di chiaroscuro rendendo i colori violenti. I ragazzini scendono al porto con i loro taxi (vere e proprie carriole con cui trasporteranno solo le valige). Tra un po’ la sabbia inizierà a scottare. È ora di andare in spiaggia, una di quelle numerate come le strade americane (prima, seconda, terza, quarta) o ancora un po’ più in là, a Boipeba. Anche il riposo ha le sue regole.

Lancio nel mare la bottiglia. La ragazza fa un sorriso solare, coinvolgente, bahiano. Mi balena il tormentone dello scorso carnevale: «Ela pintou alegria, arrumou tudo em mim/ café com pão é bom […] Vixe mainha/ ôh neguinha/ tudo é tão bom […]». Che starebbe a significare grosso modo: diamine!, vicino a quella negretta che dipinge allegria, tutto fila via liscio come l'olio, anche mangiare caffè col pane è ottimo e non ci si preoccupa più di niente.

Ecco, una cosa così.

 

Marzo 2007

 

 

 

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