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SALVADOR DE BAHIA

Le magie di Bahia

 

A Salvador per la religione non si litiga. Nonostante si racconta che ci siano 365 chiese, tutti sono catturati dalla magia del Candomblé, che mischia culti religiosi coi riti vodoo

(pubblicato su l’Adige - Settepiù – 20 agosto 2006)

 

 

Maurilio Barozzi

 

 

Casella di testo:  Nossa Senhora do Rosario dos Negros, PelourinhoNelle stradine del Pelourinho - sconnessi acciottolati con pendenze da tour de France, architetture e colori coloniali, mendicanti infagottati sui marciapiedi, bambini scalzi che chiedono monete e venditori di qualsiasi cosa – la musica del berimbau batte il tempo del magico. Il berimbau è una specie di canna da pesca con una sola corda e il suono ricorda quello dei nostri scacciapensieri. Ma trasuda magico.

I giornali, viceversa, non trasudano molto della polemica che sta imperversando nel resto del mondo: le vignette satiriche contro Maometto. Ma qui è normale: per la religione non si litiga. Eppure si racconta che ci siano 365 chiese, tutti sono catturati dalla magia dei riti del Candomblé e ci sono anche molti testimoni di Geova e via continuando. Ma non si litiga.

Magie, appunto.

E la prima che mi piacerebbe raccontare è quella che accade ogni martedì nella bellissima chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Negros, nel cuore del Pelourinho. Già l’edificio, di per sé, è una magia: celeste, sempre gremito, ha due enormi torri di influenza india e compare su una salita che a percorrerla a piedi ti ci vuole il bastone a montagna. Per non farla apparire sbilenca, alla base della chiesa ci hanno costruito un enorme terrapieno. Pietre su pietre… Già, deve essere stata una fatica da bestie portare lì tutti quei blocchi di pietra. Ma chissenefrega della fatica, tanto l’hanno fatta gli schiavi, nel 1700. Insomma, in questa chiesa il martedì nel pomeriggio tardo si celebrano sempre messe accompagnate da canzoni afro legate al culto degli dei (orixás) del Candomblé, spesso anche con tanto di berimbau.

D’accordo, la musica non sarà niente di che. Non è che lì ci viene a cantare Pavarotti, ma lo straordinario è il fatto che qui si celebrino messe cattoliche con le canzoni degli orixás. Niente male, direi. Come se nel Duomo di Trento  si facesse una messa con a margine, musicati, inni a Maometto. O come se in un tempio della Mecca i fedeli scalzi e inginocchiati nella preghiera, ascoltassero le musiche dell’Agnus Dei. Beh, visto ciò che accade nel resto del mondo, questa, qui a Bahia, mi pare proprio una magia.

L’altra magia è come il culto degli orixás coinvolga chiunque, senza eccezioni. Dal ladro al pescatore, al politico, allo scrittore di fede comunista.

Per dire. Qualche giorno fa è arrivato in città un regista tedesco. Vuole realizzare un documentario sui riti del Candomblé. Ha incontrato il ministro della Cultura (il bahiano Gilberto Gil) per chiedere il permesso di girare e il ministro gli ha imposto prima di iniziare di fare un’offerta floreale a Yemanjà, la sirena protettrice del mare di Bahia. Oppure lo stesso Jorge Amado, scrittore comunista dai due pugni, non solo uno. Anche lui, nella sua celebre guida, consiglia caldamente ai visitatori di versare della cachaça o della birra a terra appena arrivati a Salvador: è come offrire da bere agli orixás.

A proposito, questa la vorrei raccontare.

Il 2 febbraio si è celebrata (come ogni anno) proprio la festa di Yemanjà, sirena, dea del mare. Per l’occasione il quartiere Rio Vermelho (dove la dea dimora) si veste di bianco, rosa e azzurro (i colori della sirena) e a decine e decine di migliaia i bahiani si riversano sulla spiaggia e lanciano nel mare la propria offerta. L’acqua si riempie di fiori di ogni colore anche se principalmente sono rose rosse (amore), bianche (pace) e gialle (soldi e salute). Fuori, il porticciolo è invaso da centinaia di barche: i pescatori cantano “vou pegar a minha jangadinha/ vou me embora velejá…” (prendo la mia barchetta, me ne esco veleggiando) e chiedono alla dea di aiutarli, di offrire loro una buona annata di pesce.

Poi la processione dietro alla regina del mare, e dal pomeriggio scoppia la festa. E che festa! Musica in ogni angolo sparata da casse che farebbero invidia ai Bon Jovi. Birra che, anche se sa tanto di porcheria, sciacquetta, senza schiuma e molto gasata, viene tracannata senza ritegno da vecchi, bambini, donne, uomini, ragazze, signore. Tutti. E cachaça. Mischiata in bevande tropicali tra le quali la più nota è la Caipirinha, ma si arriva fino ad un succo dal nome xoxote, di cui è proprio meglio non riportare la traduzione. Attorno: danze nella strada con alcuni ubriachi che accompagnano i ritmi battendo coltelli o forchette sui tavolini di plastica che invadono ogni area. Qui è Brasile, e manca poco al carnevale: non è che a qualche ora la musica smette perché qualcuno si lamenta del chiasso. Si va avanti tutta la notte. Punto. L’importante è sapere che a tali feste si deve andare con i soldi contati infilati in qualche angolo recondito del tuo corpo, perché c’è sempre o-senhor-manolesta, che la magia la combina col tuo portafogli. È l’inconveniente di queste feste popolari. Del resto, quando metti insieme cinque-seicentomila persone, anche se quasi tutti sulla maglietta hanno l’effige della poderosa dea, le possibilità che siano tutti dei santi non sono molte. O no?

 

 

 

 

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