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CUBA |
I LIBRI di M.B. |
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CAMAGUEY,
L’AVANA, TRINIDAD, SANTIAGO DE CUBA
Birra e rivoluzione
Respirando l’aria di Cuba tra letteratura,
miti della rivoluzione e un bicchiere in mano (pubblicato su Panorama Travel – novembre 2006) Maurilio
Barozzi
Lui non
capisce ma sorride. Resta seduto vicino alla cassa per un’ora e mezza. Quando
passa un’auto è illuminato dai fari: è lì tranquillo, sorridente. Perché
preoccuparsi? Ha ragione lui: poi tornerà. Mi metto
a guardare fuori, nella piazza e nel buio quasi fatto si distingue la
silhouette di Agramonte a cavallo con un grande cappello e la spada in resta.
«All’attacco!», pare gridare. E’ il possidente che a metà Ottocento liberò i
suoi schiavi e diede inizio alla lotta cubana per l’indipendenza dalla
Spagna. Già da
Camagüey si capisce che in quest’isola tutto trasuda di lotta e di eroismo.
Statue, frasi celebri, personaggi che battezzano le vie. Sono il collante
storico per una rivoluzione che, nonostante tutto, ancora oggi vive. Che la
distingue dagli Stati Uniti e da tutto il resto del mondo. Che la rende meno
permeabile agli uniformanti schemi dalla globalizzazione. «Cuba nel suo
atlante naviga:/ un lungo ramarro verde/ con occhi di pietra e acqua»,
scrisse Nicolás Guillen, nato proprio a Camagüey nel 1952. Al bar
El Cambio sto aspettando che giunga l’ora per andare alla stazione dei treni.
Alle undici di sera ho il treno per l’Avana. Ma nel pomeriggio, quando ho
fatto il biglietto, mi hanno spiegato che dovrò essere lì due ore prima. «Per
far che?», ho chiesto. «Per aspettare», mi hanno risposto. Urka, non è che
abbia molta voglia di oziare due ore alla stazione ma, ancora una volta, non
c'è nulla da fare. Aspetterò. Nel frattempo due poliziotti hanno scritto
tutti i miei dati a mano su un grosso registro. Mi hanno chiesto il
passaporto, mi hanno fatto accomodare in uno sgabuzzino pieno di libroni
dall’antico odore di scartoffie e inchiostro. Poi mi hanno augurato buon
viaggio. «Gracias». Ho ancora
un paio d’ore di attesa, le inganno bevendo birra Cristal in lattina (a un
euro l’una). Giovanotti che guidano risciò entrano a turno al bar, bevono
qualche cosa e mi chiedono se serve una guida. Dico di no. Che ho già visto
la città, che mi piacciono molto le sue viuzze strette e gli edifici
coloniali, ma che sto andando a l’Avana. Cercano di farsi offrire qualche
birretta e un paio ce la fanno anche. Poi da uno, Rodolfo, che
incredibilmente non beve niente, mi faccio accompagnare in stazione. Trasecolo
quando mi dice che non vuole soldi. «Rodolfo, sei un grande!». E gli metto
comunque in mano due euro. In fin dei conti mi ha portato con la sua bicicalesse
fino alla stazione, in salita su un acciottolato che io non riuscirei neanche
a pedalare da solo. In sala d’attesa -
con tanto di sbarre che non permettono scambi tra viaggiatori e spettatori,
c’è una folla incredibile che sta lì a guardare la gente che parte -
annunciano che il treno “especial” per l’Avana è in ritardo di due ore. Poi
invece le ore di ritardo diventano il doppio. Si parte alle quattro,
finalmente. In un treno con l’aria condizionata che fa precipitare la
temperatura dai venticinque gradi esterni a sedici, passo la notte a
massaggiarmi le gambe e le braccia. E a invidiare orrendamente le coperte che
gli altri passeggeri si erano portati dietro. Eh, l’esperienza. L’AVANA –
Arrivo verso le undici del mattino. E grazie al cielo le ossa intirizzite dal
viaggio in treno mi si riscaldano. Passeggio un po’ senza meta, tra i
«psssttt psssttt» dei ragazzi che insistentemente mi chiedono se sono
italiano e tutto un filotto di puttanate che hanno come scopo reale quello di
scroccare bevute o un paio di euro. Il sole a picco abbacina la città
rendendo i colori violenti: bianco, azzurro, giallo. Ci sono centinaia di
case ridotte allo scheletro con le travi di sostegno in vista e i pavimenti
sventrati, montati sopra fangaie. L’acquazzone del mattino ha lasciato lungo
le pavimentazioni rotte pozzanghere d’acqua che adesso è immota e puzza di
marcio. Ma non è l’ora giusta, questa, per descrivere una città. Meglio i
colori vibranti, dorati del Lungo la
via Zanja, vicino al quartiere cinese, trovo una casa particular (una
famiglia che concede una stanza nel suo appartamento). Mi fanno dormire lì
per venticinque euro a notte. Butto la sacca e mi avvio di nuovo verso il
centro. Nella strada c’è odore di carne secca, cipolla e caramello mischiati
assieme. In una bancarella compro un dolce di mais, majarete, e
cammino con quello in mano. Sull’ingresso di una scuola, la scritta gigante:
«Creemos en la revolucion» e poco in là una lunga fila di persone che fanno
la fila. M’informo. È il razionamento di cibo al quale si ha diritto con la
tessera annonaria. Tiro dritto, tanto non la ho. Mano a mano che mi avvicino
al centro i «pssttt pssttt, italiano?», «psst psst, servono sigari?», «psst
psst, italiano, vuoi una ragazza?» diventano sempre più insistenti. Che
palle! Ma ce l’ho scritto in fronte che sono italiano? Vicino
al Campidoglio dal cupolone enorme, ci sono gruppetti di taxisti sfaccendati,
che chiacchierano vicini alle loro Cadillac o Pontiac. Auto d’epoca, belle.
Ma quando sono messe in moto sferragliano e spurgano luride scie di fumo nero
e denso. A piedi,
arrivo al moresco hotel Sevilla. Un ragazzino mi dice che è pericoloso
quell'hotel, che se proprio voglio entrare è meglio che mi accompagni lui
altrimenti… Ora ne ho proprio le tasche piene. «Giovanotto, vattene
affanculo». Come
racconta Graham Green ne Il nostro agente a l’Avana, mi faccio strada
«nella penombra del bar del Sevilla-Biltmore. Gli altri clienti si
intravedevano appena; sembravano paracadutisti accucciati in silenzio
nell’ombra, in malinconica attesa del segnale di lancio». Ma, a differenza,
il bar è completamente vuoto, luminoso e l’atrio enorme con i soffitti
altissimi e mosaici azzurri alle pareti, sembra quasi un museo, più che una
hall. Altro che pericoloso: se fuori ripesco quel ragazzotto... Bevo una
birra. Sottobicchiere. Noccioline in coppe d'argento. Bene! Pago al cameriere
in livrea e esco. Verso le
sei, l’Avana è proprio quella descritta in modo ridondante dal famoso
scrittore cubano Alejo Carpentier: «Simile, in quest’ora di riverberi e ombre
lunghe, a un gigantesco lampadario barocco, i cui cristalli verdi, rossi,
aranciati, colorassero una confusa roccaglia di balconi, arcate cupole,
belvederi e verande con persiane. […] Era un abitato eternamente in preda
all’aria che lo penetrava, sitibondo di brezze di mare e venti di terra, aperto
in pusterle, imposte, battenti, nicchie, al primo alito fresco che passasse».
Del resto: non si può descrivere l’Avana senza essere ridondanti. La sera
cena in un locale vicino alla splendida Cattedrale, poi filo alla Bodeguita
del Medio, altro locale reso storico da Hemingway. Dopo aver messo la firma
sul muro come fanno tutti (per dire, c'è qui anche la firma di Jovanotti) mi
metto a chiacchierare con un barista. Arriva un ragazzo sui venticinque anni.
Nero, indossa una camicia bianca, elegante e abiti occidentali. Parla
italiano meglio di me. Però attacca un pistolotto ormai già sentito in tutte
le salse: che lì non hanno niente, tranne spacciatori e camerieri degli
alberghi di lusso; che non sono liberi di dire ciò che pensano perché
altrimenti finiscono in cella; che sono sempre controllati dai piedipiatti.
Tutto vero, ma lo hanno già spiegato al mondo espatriati e scrittori. Tira
fuori un giornale spiegazzato dalla tasca dei pantaloni e mi dice che è
l'unico che si può trovare e mi mostra che parla solo di Castro. Sono le
undici di sera e che lui abbia ancora il giornale in tasca mi insospettisce
un po': vuoi vedere che tutto il monologo è preparato ad arte? Poi allude al
fatto che vorrebbe andare a lavorare in Italia, per guadagnare. Gli faccio presente
che un operaio prende meno di mille euro al mese e che un affitto ne costa
almeno la metà. Lui risponde che sta studiando da avvocato. A beh, allora...
A quel punto, ancora le mani in tasca e caccia fuori la foto di una ragazza
vestita tutta di bianco e un bimbetto di un paio d'anni. Mia moglie e mio
figlio, dice. Uhmm... Faccio: «Vestita così sembra più una suora». Lui
sorride alla battuta, poi mi spiega che è il costume da adepta alla santeria,
la religione sincretica di Cuba. Mi rovescia addosso ancora due o tre
informazioni ma io ne ho abbastanza. Se devo star lì a chiacchierare, a
essere sinceri, preferisco una bella cubana. Lui mi chiede se può vendermi
dei sigari. Gli dico di no. Fa: «Per mantenere mio figlio». Ci risiamo.
Ripeto il mio no. Poi insiste ancora e allora me ne vado io. A casa. Il
mattino dopo mi sveglio presto: voglio andare sul Malecón a vedere il mare, i
pescatori, respirare l'aria salmastra che assieme alla povertà consuma i
palazzi della città. Alle otto del mattino è quasi deserto: poche auto, poca
gente, pochi pescatori. Proprio come scriveva Hemingway in Avere non
avere. Mi chiedono di dove sono. Dico: «Italia, del nord». Uno fa:
«Milano o Torino?». Per loro al nord esistono solo Milano e Torino. Ma vorrei
vedere quanti italiani saprebbero dire due o tre città del nord di Cuba. Sto lì
così, a non fare niente, un paio d'ore. Seduto su un muretto con le gambe a
ciondoloni, a guardare il mare. Poi prendo un taxi e filo verso la stazione
della Viazul, la linea di autobus di prima categoria cubana. Destinazione:
Trinidad, la Firenze di Cuba. TRINIDAD -
Quando scendo dall'autobus sono le 18.45. E' notte. Ho viaggiato quasi sei
ore con tre soste di una decina di minuti l'una. E' bello viaggiare con
questi autobus. Ci metti un attimo a fare il biglietto, ogni due ore di
marcia fanno una sosta ai bar e su c'è la televisione che dà film o
documentari. Scendo e sono letteralmente preso d'assalto da un gruppo di
ragazzi, uomini, donne che cercano di rifilarmi un posto nella loro casa
particular. Mi sembra di essere un calciatore famoso a cui il pubblico
chieda l'autografo. Ma non sono un calciatore. E tantomeno famoso. Per me
tutto questo è solo una scocciatura. Comunque: scelgo uno a occhio, che mi
porge un biglietto da visita con la foto e mi offre la camera a dieci euro:
«Ma solo se ti piace, altrimenti non paghi». Ok, vediamo. Lui si chiama
Alexander, mi presenta suo fratello e la moglie del fratello. Offrono vino
cubano versandolo da una bottiglia anonima. Mi spiegano che lo fanno loro. E'
piuttosto forte, marsalato. Mi mostra il bagno e poi la stanza: va bene, è
pulita. La prendo. Propone una cena per sei euro: pesce pargo (cernia),
gamberetti, fagioli, riso, verdura e acqua o vino. Se voglio birra un euro in
più. Per la colazione sono altri tre euro (banane, nippero, succo di
pompelmo, caffé, latte, burro, uovo). Poi, come sempre, precisa: «Se non ti
piace non paghi». D'accordo. E' un buon tipo. Anche se un po' rompiballe:
durante la cena mi presenta moglie e figlia e alla fine mi mostrano le foto
del matrimonio. Due album! Poi attacca anche lui la storia dei sigari: li
rubano dalle fabbriche e li vendono di nascosto. Vabbé, mollamente una
scatola.
Entro al
museo nazionale della lotta contro i banditi. Racconta dei
controrivoluzionari che negli anni dell’operazione alla Baia dei Porci si
rifugiarono lì, sulla sierra dell’Escambray e poi vennero sconfitti. Foto in
bianco e nero, armi d'epoca. Un anziano mi fa da cicerone e quasi gli vengono
le lacrime agli occhi, raccontandomi di aver preso parte a diverse azioni per
scovare quei banditi (i controrivoluzionari). Può darsi che siano tutte balle
e lui un attore consumato. Sta di fatto che l’orgoglio di essere dalla parte
di Castro e della rivoluzione c’è tutto. Comincio a rendermi conto di cosa
significhi per un Paese essere attaccato ai propri simboli. E qui a Cuba quei
simboli sono, in ordine sparso: Che Guevara, Camilo Cienfuegos, Antonio
Macheo, José Martí, Carlos Manuel de Céspedes, Maximo Gómez, ovviamente Fidel
Castro e altri. Dappertutto ci sono le loro effigi, monumenti e ricordi. Sono
tutti eroi dell'indipendenza cubana dalla Spagna, dagli Stati uniti, o
protagonisti della rivoluzione contro Batista. Gli anziani
raccontano fieri. I giovani, invece, chiedono soldi, penne, caramelle, uno
addirittura l'orologio. Di Fidel Castro non si fidano, non gli piace. Vogliono
poter avere qualche cosa: di idee rivoluzionarie, simboli, miti, musei se ne
fregano. Chiudo la giornata al Canchanchera, un locale carino con
sedie-poltrona in legno scuro. Anche lì a un certo punto sparisce la luce.
Così vado alla casa della musica dove suonano dal vivo. E a ballare ci sono
vecchi e giovani. E’ la musica, penso, che tiene ancora unite le generazioni.
Per il resto così diverse. SANTIAGO
DE CUBA – A fare il tratto Trinidad-Santiago, in autobus, ci
vuole tutta la giornata. Guardo dal finestrino: gente a piedi, in bicicletta,
qualche carro, trattori che
trasportano dieci, quindici persone: uomini, donne, bambini. E poi i cartelli
di orgoglio nazionale: «No Hay fuerza capaz de aplastar nuestra resistencia»;
oppure: «Morir por la Patria es vivir». Quando
arrivo è notte e la prima cosa che mi viene in mente sono le frasi di Green
che descrivono le grate di ferro. E’ vero, moltissime finestre hanno fitte
grate di ferro che infondono inquietudine. E per strada, nella luce fioca,
ciò che si distingue degli uomini, quasi tutti neri, sono i denti e il bianco
scintillante degli occhi. Bevo una birretta e poi vado a cercare una stanza.
Ora c’è
da andare alla Moncada, la caserma dove Fidel Castro effettuò il primo
attacco al potere di Batista. Un attacco fallito. E' pieno di buchi che
sembra una gruviera, tutti proiettili a testimonianza di quell'assalto. Ma un
ragazzo mi dice che i proiettili siano stati sparati dopo, a bella posta. Al bar
Enramadas un ragazzo insiste per farmi un ritratto. Non ha bevuto la storia
della Polonia, altro che dritto. Gli offro una birra purché non mi scocci più
con la faccenda del ritratto. Dice che suo padre fa l'insegnante. Parla di
Carpentier e sostiene che sia il più grande scrittore dell’isola. A proposito
di libri: mi sposto e vado all'Hotel Casa Grande, affacciato su piazza De
Cespedes. Green lo definì «un covo di spie e di informatori della polizia».
Invece oggi nel bar ci sono solo turisti tedeschi e un paio di loro, vecchi,
accompagnati da giovani jineteras (prostitute). Giovani, molto giovani. Non
so, fa un certo effetto vedere un settantenne bianco che si sbaciucchia con
una moretta che ne avrà sedici. Un effetto che somiglia vagamente allo
schifo. Mah... Il museo
Bacardì è stato fondato dal primo sindaco di Santiago, anche se è rimasto
molto più noto per il rum. Oltre ai dipinti, vi si possono ammirare anche
testimonianze delle guerre d’indipendenza e armi. All’ingresso c’è una tavola
con una scritta che sintetizza un po’ la filosofia che spinse questo
filantropo a fare qualche cosa per la sua terra, senza pretendere in cambio
nulla. E sintetizza anche le sensazioni che gli anziani provano quando
parlano della rivoluzione: «Fare la patria costantemente è il dovere dei
giovani; rinnovare in ogni momento il ricordo di coloro che sono stati i
nostri gloriosi precursori è ciò che nessuno deve dimenticare mai». Firmato:
Emilio Bacardí, 1921. Nel rientrare alla mia stanza mi
fermo sulla Heredia. Al 256, dove sta la libreria “La Escalera” di Eddy
Tamayo,
Scrivi
all’autore: mauriliobar@libero.it |
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