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ITALIA |
I LIBRI di M.B. |
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SIENA
Tutti protagonisti alla piéce
del Palio
Cronaca semiseria di una festa tanto
partecipata da sembrare finta Maurilio
Barozzi
Quella
corsa a cavallo, schizzata attorno a piazza del Campo, l’hai già vista migliaia di
volte, alla tivù. Ne parlano tutti;
si sa come funziona. Sai che ne corrono due all’anno (il due luglio e il
sedici agosto); che è una combine; che i fantini in gara si menano coi
nerbi di bue; che quasi sempre c’è qualche cavallo che si ferisce davvero sbandando in una
di quelle quattro curve disegnate a gomito; che i senesi tengono più alla
contrada che ai coniugi... Eppure vuoi andare lì per toccarlo, respirarlo, quel Palio. Per esserci. Se capiti in macchina da
nord,
una
volta a Firenze si percorre la strada del Chianti:
Impruneta, Greve e Castellina. L’ho fatto a mezzogiorno: un brullo saliscendi abitato solo da
viti e olivi. Sole. Silenzio. Deserto. È
famoso, questo paesaggio. Soprattutto per il vino (ora anche
perché ci viene in vacanza la famiglia Blair). In agosto è malinconico; così secco,
come la sabbia. Il verde, ucciso dal sole a picco, è compresso in poche
macchie smorte qua e là. Scivoli in auto su un tizzone
d’asfalto circondato dal beige. Avanti così, fino ad alcuni chilometri
prima di Siena. Quando inizi a vedere qualche casa e un po’ di piante sei quasi arrivato. Ecco la città. Tutto
diverso, rispetto alle colline: gente dappertutto. Lì ferragosto non
esiste, quel giorno è “la vigilia”. Stanno preparando per il Palio.
Caos. Gente che lavora. Colori. Vociare. Nel pomeriggio migliaia di
persone in piazza del Campo aspettano le prove generali della corsa con i
cavalli. Per terra, lungo il perimetro dove si disputerà la gara, hanno buttato della sabbia, una specie di creta. Scenografia:
serve
perché i cavalli non scivolino. Certo, se volevi
vedere com’è la piazza, la sua forma a conchiglia, il suo
scendere ad imbuto verso il centro, ti conveniva scegliere un
altro periodo. Ma se sei qui oggi, è per la gara. PrProve generali di Palio
Verso
le cinque la folla viene fatta circolare fuori dalla piazza da
vigili, carabinieri, polizia. Quelli che vogliono restare dentro, sono
schiacciati a forza in un recinto centrale costruito
apposta:
il perimetro deve restare libero per i cavalli. Dieci
minuti
da reclusi, il copione parla chiaro. Arrivano sul percorso i carabinieri a cavallo.
In divisa da parata. Saranno una dozzina. Un giro di piazza allineati al piccolo trotto. Poi
un altro: questo veloce, al galoppo. Sciabole puntate in avanti. E' la
carica. Tutt'intorno la gente grida e applaude. Pochi
istanti e dal palazzo pubblico, sotto torre Mangia, entrano i cavalli del
Palio. Con i fantini in giubba da gara. Bum. Un botto e partono subito, senza
troppo cincischiare all’ingresso, non si prova l’entrata al canapo. Uno del
pubblico tira
fuori il telefonino e
chiama casa: «Guarda la Tv, sono al Palio di Siena». Il vicino gli
spiega che sono solo le prove. La delusione dura un attimo: fino poco prima non sapeva
nemmeno perché lo avevano rinchiuso nella piazza. I fantini non spingono a
fondo. Un
minuto: fine della prova generale. Gli inservienti
aprono i cancelli: tutti fuori. Sotto
le tribune di tubi innocenti appoggiate a palazzo
Sansedoni un gruppo di ragazzi urla e si spintona. Tornato
al canovaccio libero devo essermi perso quel «Ciack si
gira» del
grande regista. Qualcuno tra le comparse periferiche parla di pugni e di pestaggi, ma è roba da poco.
Confermerà «Il Corriere di
Siena», che esce anche
il sedici agosto: niente feriti, zero fermi. Che rissa è? Fregature di
Ferragosto Sera:
dovrebbe
essere il clou, con la cena sulle grandi tavolate imbandite per le vie. Banchetti
dappertutto, con bandiere e vino. Ma solo se abiti lì o ti porta
qualcuno che vive nelle contrade, puoi
partecipare. Se vieni da fuori restano solo i
ristoranti e trovare un posto è quasi impossibile. Tutto
strapieno. Dopo un'ora, un locale: in via Pellegrini, centro pieno. Finalmente! Fiorentina e
patatine, un crostino di antipasto, acqua e un po' di vino. Poco vino: una brocca da litro in tre.
Conto: duecentodiecimila lire. Alla faccia, complimenti! Forse il
cameriere–padrone non ha digerito che avessimo ordinato dell'acqua dicendo:
«Acqua padre, che
il convento brucia». O forse non gli è piaciuto che ogni tanto lo
chiamassimo «generale». Rimane il conto. La
notte di
ferragosto la trascorrono tutti in piazza
del Campo, non puoi
mancare.
Però
sedersi è durissima anche se pullula di bar. Allora molti si siedono
sulle Noi abbiamo un albergo prenotato, invece. Così lo show prosegue in albergo: centomila lire a
notte senza colazione. Un bagno che è un cesso di un metro quadro. La doccia
senza l'apposito piano consente contemporaneamente di ricevere il getto
d'acqua e di fare pipì nel water. Uno spettacolo,
non so se mi spiego. La mattina avevamo chiesto la
sveglia alle dieci. Alle undici sono ancora a letto senza che nessuno
abbia chiamato. «Ci è andata in tilt la centralina», si giustifica
(peraltro senza scusarsi) l'uomo alla reception, quando osserviamo che non siamo stati
svegliati, come d’accordo. E fa orecchie da mercante mentre gli si fa notare
che in una
camera
era rotta anche
la tv di uno dei miei compagni di viaggio. In compenso il computer
funziona a meraviglia, quando ci battono il conto: centomila lire a cranio. Doccia o non
doccia. Sveglia o non sveglia. Televisione o non televisione. Affanculo! Un’attesa
snervante Nessuna
novità: per le strade i soliti gialli giapponesi
scattano a mitraglia con le Nikon all'ultimo grido. O filmano con le
telecamerine digitali. Un padre di
famiglia porgendomi la sua macchina mi chiede se posso immortalarlo assieme a
moglie e figlio con alle spalle la torre del Mangia. Lo faccio. Mentre scatto
guardo la faccia del bambino. Avrà dieci anni. Devono averlo portato lì a
forza: i genitori
sorridono, lui no. Click. «Grazie». «Prego». Anche se, bisogna ammetterlo, resta una certa libertà, i ruoli vanno
interpretati con rigore: il bello è lì. I senesi, agguerriti e
maledettamente concentrati sul Palio; noi, i turisti, la
cornice di pubblico ingenua al punto da non guastare la rappresentazione e da potersi
meravigliare in ogni dove (come davanti ai necrologi appesi sui muri: “Mario Bianchi,
contradaiolo di valore”); baristi, ristoratori e albergatori, gli uomini al
botteghino: loro vincono sempre, al Palio. C’è
una cosa che mi preme vedere, visto che sono qui: le allegorie del
Buon e del Cattivo governo dipinte all’inizio del Trecento da Ambrogio
Lorenzetti. Non ricordo se stanno alla pinacoteca o al
palazzo pubblico. «Al palazzo pubblico, sotto la torre alta che si
chiama del Mangia», mi dice la commessa di una libreria, con l'aria
della maestrina, facendomi sentire un perfetto ignorante. Sensazione
ingigantita dal fatto che il palazzo, in questi giorni di Palio, è chiuso:
doppiamente asino. È ora di tornare in piazza, per farsi rinchiudere. Ho lo stomaco premuto sulla staccionata dalla gente che
mi si accalca sulle spalle e sulla schiena; il sole diritto sulla nuca; mi fanno
male le gambe (immagino quelli che sono lì da ieri
sera). Le acri zaffate di sudore che
arrivano si fanno sempre
più frequenti col passare del tempo.
«Il
corteo storico» dice forte un ragazzo con due paia di
occhiali, un paio da vista e, sopra, un paio da sole. Sta seduto sulla recinzione che ci
imprigiona nella piazza. «Come
funziona?», gli chiedo? «È una gara nella
gara: ogni contrada ha un tamburino, due alfieri, il duce e gli
sbandieratori, che arriveranno più tardi». In
mezzo al percorso della sfilata c’è un uomo, vestito in borghese, con tanto
di notes in
mano. Sta scrivendoci su qualcosa, con impegno. Sono tutti
distratti, poco interessati, i turisti. Sono lì per i cavalli. Il
giovane invece continua: «Quello è uno dei giudici del corteo: lui
valuta l’abilità degli sbandieratori e dei suonatori. A me piacerebbe suonare
il tamburo. Forse tra qualche anno potrò essere io, il tamburino della mia
contrada, la Civetta. Dio come sarebbe bello». Fissa
questi uomini in costume storico. Ogni tanto ammicca all’amico, appollaiato a
fianco a lui, osservando i componenti il
corteo. «Ma
come? – gli sussurra l’altro – Luca già porta il vessillo? Ma se avrà sì e no
diciassette anni». Poi
notano i loro padri seduti sulla tribuna di fronte, riservata ai contradaioli
storici, a poche decine di metri uno dall’altro. Se li indicano a vicenda,
compiaciuti. Il ragazzo con gli occhiali racconta all’amico che se il
prossimo anno sarà promosso a scuola, i genitori gliel’hanno già promesso: lo
porteranno a vedere l’abitazione del fantino Aceto. Il re del Palio. In
quella sua casa, si dice che abbia riprodotto una pista uguale a quella di
piazza del Campo. Per potersi allenare tutto l’anno sulla corsa. L’altro
gli spiega il suo di premio-promozione: andrà ufficialmente
alla cena della contrada, il battesimo senese. Poi
quello con gli occhiali si gira ancora e mi rovescia addosso
una valanga di informazioni. Notizie di getto, in disordine, di ogni natura: «Voi che venite
da fuori del Palio non capite nulla, neanche noi ci riusciamo. I veri
manovratori sono i capitani delle contrade, quelli che fanno
gli accordi sottobanco»; «In
quest’edizione noi della Civetta non gareggiamo:
sette contrade, a turno, restano fuori perché la corsa è tra dieci
cavalli e le contrade senesi sono diciassette»; «Tra contrade
nemiche non corre buon sangue durante tutto l'anno. Si può anche essere amici
ma se qualcuno insulta la tua contrada allora volano cazzotti»; «Se vince il
Palio il Leocorno – nemico storico della nostra contrada – io vo' a dormire
dalla mi' nonna, a Montalcino»; «Appena il Palio termina e gli inservienti vengono
a togliere il cancello ti conviene scappare perché qui poi volano cazzotti
(cosa che non è accaduta)». E molti altri frammenti, righi sparsi del copione. Così
come lo Attorno
tutti sono esausti. Gli sbandieratori sono bravi ma in pochi li guardano,
occupati a respirare, a bere, a ripararsi dal caldo e dal sole. I barellieri
della croce rossa sono sempre indaffarati a portare fuori dalla piazza gente
che non si sente bene, soprattutto molti bambini. I genitori che portano qui
i bambini dovrebbero essere giustiziati, penso. Pochi si stanno divertendo,
alle prese con la sofferenza fisica. Eppoi dicono che fare l’attore è facile. Finalmente la
gara Alle sette e venti entrano i cavalli del Palio.
Dieci. Ognuno rappresenta una contrada. In silenzio
quasi religioso la piazza gremita ascolta lo speaker che annuncia l'ordine di
entrata ai canapi. Lì si decide gran parte della gara. Quello che non è già
stato venduto sottobanco prima. Quando tutto è pronto si attende soltanto che
il cavallo che non è stato chiamato (l'ultimo che rimane) entri in rincorsa
dando il via alla gara. Oggi tocca al Nicchio. L'attesa è lunga: ovviamente
il fantino attende che gli avversari non siano troppo pronti per entrare e
dare il via. Perde tempo. Poi parte. È un'esplosione per tutti. Almeno
trentamila persone si accalcano in piazza e sugli spalti; gridano. Un minuto e mezzo o poco più, un niente: la gara è già finita. Diavolo: più che il centro
della grande commedia, la corsa dei cavalli mi sembra il buco di una
ciambella. Da dentro la piazza, tra l’altro, non è che capisci molto, vedi solo cavalli
che sfrecciano tre volte con fantini che
li montano a pelo, senza la sella; o cavalli senza i cavalieri. Se non sei sulla linea del traguardo, ci vuole un po’ anche per sapere chi ha vinto. Finalmente l’ho capito: ha trionfato il Nicchio, il
cavallo di rincorsa. Nella piazza entrano i suoi tifosi riconoscibili per il
foulard della contrada che raffigura una conchiglia. Urlano e si
commuovono.
Giovani, vecchi, donne e uomini. Quelli delle contrade sconfitte –
prefiche di consumata esperienza – piangono disperati. Poi tutti i contradaioli del
Nicchio, scortando il Palio appena conquistato (un drappo
giallo con disegnato un cavallo ed una lunga scritta che comincia
con le parole «Con eroica virtù ed un incredibile coraggio...», d’accordo: mi fermo), vanno in
piazza
adorando il cavallo; poi lo portano (il cavallo!) nel duomo, per il
Te Deum, il ringraziamento. Sipario. Scrivi
all’autore: mauriliobar@libero.it |
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