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ITALIA |
I LIBRI |
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LAGO DI
GARDA
In bicicletta sulla strada dei poeti
TRENTINO - La strada Ponale collega Riva
del Garda con la Val di Ledro o con Pregasina. Riaperta da poco, dopo circa
nove anni di chiusura, è a strapiombo sul lago. Serve ciclisti e camminatori. Maurilio
Barozzi
* * * Un percorso per
rampichini è qualcosa di stretto, inclinato e sconnesso. Su questo – la
Ponale – puoi solo pedalare e metterti alla prova. Oppure puoi rallentare –
anche fermarti – e apprezzare il creato. Rimetterti in pace con te stesso.
Farti assalire da qualsiasi pensiero, che tanto lì diventa luminoso. Tutto è
così quieto in mezzo a quei colori – il marrone vitale della terra, della
roccia scura, dei tronchi d'albero, il verde delle foglie e dell'erba che
circondano la traccia su cui pedali, l'azzurro del cielo e quello più denso
del lago. Anche la fatica, sembra qualche cosa di piacevole, finanche bella. Fatica… Per arrivare a
Riva da Rovereto, con la mia bici – una ventina di minuti prima – avevo
superato Passo San Giovanni (m. 287 slm, per i veri ciclisti un semplice
cavalcavia). Lì nella prima metà del 1400 i veneziani avevano compiuto
un'impresa che – oggi – tutti ascoltano a bocca aperta. Giunti a Mori
dall'Adriatico risalendo l'Adige con una ventina di barconi e, pare, sei
galere, i veneziani tolsero tutta la flotta dall'acqua. La trascinarono a
spinta fino al lago di Loppio – ora pantano pluviale –, poi di nuovo a secco
fino a Torbole. Lì le navi furono immesse nel Garda. Con questa tattica
sorpresero i viscontei e li sconfissero, conquistando Riva. Insomma, pensavo
pedalando sulla S. Giovanni, se hanno portato su per di qua una flotta, sarò
capace di portar su una bici… * * * La Ponale, si diceva. Cercando di evitare
qualche spericolato lanciato in discese folli (invero pochi), si può sostare
alle varie balconate che danno sul lago. Ne vale la pena: «Quanto vorrei che
i miei amici fossero qui, per un attimo, accanto a me e potessero godere
della vista che mi sta dinanzi», si disse Goethe, appena vide il Lago di
Garda. Più prosaicamente – sgobbando su una bici – penso quanto vorrei aver
bevuto qualche birra di meno, ieri sera. Ma tant'è, non si piange su ciò che
si è versato. E, sempre a proposito di ciò che si è versato, girandomi verso
Torbole, rivango un altro passo del Viaggio
in Italia di Goethe: a Torbole «manca una comodità molto importante – scrisse
– dimodoché si è molto prossimi allo stato di natura». Per la famelica
schiera di quelli che lo scrittore Johnatan Franzen chiama perfezionatori, aggiungo che Goethe ha
precisato: «Quando chiesi al servo come soddisfare una certa necessità, egli
accennò al cortile di sotto: "Qui abasso può servirsi!". Gli
domandai: "Dove?". "Da per tutto, dove vuol", rispose
cortesemente». Ma sto divagando. Nei progetti di qualcuno,
la Ponale poteva diventare una sorta di sentiero dei poeti come c'è quello
degli innamorati alle Cinque terre. Meno impervio, è aperto anche alle
biciclette, ma sono in molti che lo percorrono a piedi. Così, su quel
declivio, la strada ritorna ad essere un luogo di incontro, non di scontro
come la funesta congiura tra asfalto e meccanica pare aver da qualche anno
sentenziato. Puoi salutare sconosciuti o imbatterti in conoscenti e con tutti
scambiare due parole, un'impressione. Se invece la percorri in giornate
plumbee, la troverai poco frequentata. Godi del silenzio che stenti a
riconoscere. Te lo fanno apprezzare solo i pochi rumori che di tanto in tanto
lo interrompono. Il verso di un uccello, il tuo ansimare affaticato, oppure
il fischio di qualche vaporetto che ti fermi a guardare giù, nel lago. * * * Uno strapiombo mi
elettrizza i neuroni. Il fulmine scintilla in una vecchia storia. Vecchia
ormai quasi venticinque anni. Proprio per questa via, allora aperta, si
saliva in pullman verso la Val di Ledro. Qualcuno – mi pare fosse il prete
che ci accompagnava in campeggio, ma non giurerei – raccontò di anni prima,
quando un uomo, scendendo in auto, ne perse il controllo, uscì di strada e
precipitò, inabissandosi nel lago. Non so se la storia sia vera o servisse
solo per tenerci buoni. Ma, direbbe Borges, l'importante è che sia stata
raccontata. E ora innesca una considerazione: forse, anche oggi, in alcuni
tratti la sicurezza non è esattamente quanto di meglio. Avanti sui pedali fino al
vecchio edificio dismesso, un paio di chilometri sopra Riva. Fine della
Ponale. Un incrocio. A destra si sale verso la Val di Ledro. A sinistra a
Pregasina. Prendo questa, per arrivare al Passo della Rocchetta (m. 1160
slm). Da lì si vede praticamente tutto il lago. C'è da pedalare ancora un po'
e alcuni tratti sono davvero ripidi, ma lo sforzo vale la pena. Fortuna, poi,
che la strada è ombreggiata dalla roccia e dagli alberi: aiuta molto non
patire caldo, in questi casi. Il percorso, comunque, non è lungo: da Riva del
Garda alla meta sono circa sette chilometri. * * * Passo della Rocchetta.
Trovo il mio solito puntone di roccia, a picco sul lago. Vado spesso lì.
Posso sedermi in pace, solo. Godere del delizioso panorama. Però, è strano come anche
dallo stesso punto le cose si possano vedere diversamente. Tempo addietro sono
arrivato qui nel tardo pomeriggio. Il tenue bagliore faceva percepire ogni
dettaglio del paesaggio. Il cielo era celeste, l'acqua ferma, le ombre si
allungavano dolci dando un senso di profondità alle cose. Poco dopo, nel
crepuscolo, il sole rosso fuoco tracciava una striscia dorata, leggermente
dondolante sul lago. Ricordo il grande senso di pace, neanche fossi parte di
un romantico dipinto. Ora è diverso. Sempre
splendido, ma diverso. Il sole è scintillante, crea chiaroscuri violenti. Il cielo è blu cobalto. Tutto attorno a
me le montagne si conficcano a strapiombo nell'acqua scura e crespa. Sembra
anche fredda, da quassù. Stessa stagione. Entrambe
giornate serene. Solo la differente ora del dì mi fa vedere questo paesaggio
in due modi discordi… Capisco che George Byron, per esempio, possa essere
rimasto deluso, quella volta che è arrivato sul Garda. Lui, Lord, abituato
alle placide nuotate di Porto Venere arriva qui e si trova una burrasca. A
nulla valgono i versi delle Georgiche di
Virgilio: «O dovrò ricordare […] il Garda che si gonfia con flutti e impeto
di mare?». Punti di vista. Per dire,
D. H. Lawrence fu sul Garda, poco in là dal mio spazio d'osservazione, a
Gargnano. Si dice che al lago abbia addirittura preso spunto per scrivere il
suo romanzo L'amante di Lady Chatterley.
Mah, certo è che in quel libro non mancano le metafore, per così dire,
acquatiche: «… lei si dischiuse, si spalancò, e più possenti quelle onde
rotolarono verso spiagge sconosciute…» e via dicendo. Da qui, sull'altra
sponda, vedo il castello di Malcesine. Là Goethe, sempre nel suo Viaggio in Italia, raccontò che fu
scambiato per una spia perché lo stava dipingendo. Si formò un minaccioso
crocchio di curiosi. Gli fu intimato di metter via carta e matita. Volevano
farlo arrestare. Chiamarono il podestà, i cui lineamenti «ottusi del suo viso
poco intelligente andavano in perfetto accordo col modo lento e confuso con
cui poneva le domande». Goethe fu salvato dal fatto che, quando disse di
provenire da Francoforte sul Meno, «una giovane donna graziosa» spiegò al
podestà che si sarebbe potuto chiarire la posizione del forestiero parlando
col signor Gregorio, «che è stato molto tempo a servizio là, e saprà
risolvere la questione meglio di tutti». Così la faccenda si risolse. Ma sul Garda,
precisamente a Torri del Benaco, soggiornò anche André Gide. Quando un uomo
lo riconobbe e, per verificare, gli chiese il nome, l'autore rispose: «Temo
di averlo dimenticato. Veramente, non lo ricordo». Entusiasta del lago fu
Ezra Pound che fece di tutto per farsi raggiungere – a Sirmione, sulle orme
di Catullo – dall'amico James Joyce. «O Benaco di zaffiro, in te e nelle tue
brume la stessa natura si è fatta metafisica chi può guardare in quel blu e
non credere?», scrisse. E Joyce arrivò. Degli scrittori italiani al Garda,
neanche si può dire, ché sennò non la finiamo più, basti pensare a Dante,
Foscolo, Carducci, ovviamente D'annunzio… * * *
Diavolo!, quasi sera.
Meglio scendere. In una delle rientranze
mi fermo e guardo i palazzi di Riva, in ombra da un pezzo. La pietra del
castello e della torre dell'orologio si vede appena da qui. In compenso si
vedono molto bene i grandi alberghi che si affacciano sul porticciolo con i
loro colori pastello. Qualcuno dice che Thomas Mann scrisse Il Tristano proprio a Riva. Lo
ammetto: non mi piace Mann, non conosco Il
Tristano, e non ho voglia di verificare. Piuttosto, nel mio zaino ho un
libro. È un pezzo che avevo in mente di rileggere qui, con vista su Riva, un
racconto. È Il cacciatore Gracco di
Franz Kafka. Anche lui fu sul Garda. E proprio a Riva ambientò il racconto di
cui sopra. Finito di leggerlo - una
decina di pagine se si legge il frammento allegato, altrimenti sei - torno a
guardare Riva. Ora scura, silenziosa. Il crepuscolo. Quelle
pagine… Il cacciatore Gracco è un
morto, precipitato da una rupe inseguendo un camoscio. Il traghettatore
funebre sbaglia rotta e lo costringe così a vagabondare per sempre nelle vie
d'acqua. Lui, cacciatore della Selva Nera, che avrebbe voluto raggiungere la
montagna eterna. Talvolta - come a Riva - cerca di toccare terra. «Crede,
signor sindaco, che debba restare a Riva?», chiede. «Non posso dirlo ancora -
risponde il sindaco -. Lei è morto?». In un certo qual modo Gracco è nello
stesso tempo un morto vivo. O viceversa. «Brutto destino», commenta il
sindaco. E domanda chi abbia colpa per tale destino. «Il barcaiolo» risponde
il cacciatore. Eppure, nonostante Gracco non abbia colpe, nessuno gli andrà
in aiuto. «Se si proclamasse l'incarico di aiutarmi, tutte le porte
resterebbero chiuse, chiuse tutte le finestre, tutti starebbero a letto, la
coperta fin sopra la testa, tutta la terra sarebbe un albergo notturno. […]
Ma per scacciare questi pensieri basta che mi guardi in giro e mi rammenti dove
sono …». «E ora conta di rimanere qui a Riva?», gli chiede il sindaco di
Riva, dopo aver conosciuto meglio il suo interlocutore, averne appreso il
destino di morto-vivente, e avendo così sciolto il suo dubbio sul fatto che
Riva possa fare o meno per Gracco. A quel punto però è il
cacciatore che gela il sindaco. Ribaltando delicatamente i ruoli con
l'amorevole gesto di posargli una mano sul ginocchio, rifiuta la salvezza di
quell'approdo rivano: «Sono qui, non so altro, altro non posso fare. La mia
barca è senza timone e viaggia col vento che soffia nelle più basse regioni
della morte». Firmato Kafka. Profondo
come il lago, ormai buio. (ago. 2004) Scrivi
all’autore: mauriliobar@libero.it |
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