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SPAGNA |
I LIBRI di M.B. |
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PAMPLONA
Pamplona nei giorni di San
Fermin
Follia alcolica e coraggiosi encierri
durante la famosissima Fiesta Maurilio
Barozzi
Mi disse così un vecchio farabutto che conosco da oltre
dieci anni, un amante della fiesta di San Fermin de Pamplona, dei tori, delle
corride e - soprattutto - del rum. Ci sono stato sei volte: ho capito che,
nonostante sia stata formulata da un autentico figlio di puttana, quella è
una verità. Una regola. Uno mi ha scritto che nel mio reportage del '98[i]
avrebbe letto volentieri anche la descrizione della città. Amico, parliamoci
chiaro: se sei a Pamplona a San Fermin è perché adori "Fiesta" di
Hemingway. Se sei qui, sai che qui si beve, si vedono le corride, si corre
coi tori sulle strade di pietra viscida, non si dorme, ci si spruzza addosso
il vino, si beve ancora e, quando non se ne può più, si scappa. Se cerchi una
bella città, belle chiese, pinacoteche e musei, vai a Saragozza, Burgos, al
limite anche Logroño (sempre per restare nei paraggi). Vuoi una bella
spiaggia? C'è San Sebastian. Ma se vuoi questo, Pamplona non fa per te. Comunque, la descrizione. Sta sulle colline della Navarra, tra i rii Arga e
Sadar. Ha un clima del cazzo che ricorda quello delle mie zone – nord Italia,
caldo umido d'estate, aria gelida d'inverno. Nel centro storico: chiassuoli
stretti e calli in pavé levigato dai passi; le pareti delle case quasi tutte
di un marroncino chiaro, color niente, molte scrostate; tapparelle e imposte
stan su per miracolo. Se hai l'opportunità di sporgerti su un tetto, vedi
tegole alla rinfusa, un proliferare selvaggio di antenne e la comparsa di
rialzi (col mattone ancora a vista) o di verande-mansarda inventate alla
bisogna: quasi quasi gli ultimi piani degli edifici cadenti e occupati
abusivamente a l'Avana. Finis. Arte, poca se togli Cattedrale e Ayuntamiento.
In più, in giro si respira un asfissiante sentore di Opus dei che mette le
mani su tutto quello che può: università, uffici, cariche pubbliche. Insomma:
niente di che. Qui devi venirci a San Fermin. Punto. Il fatto è che se ci
vieni, poi non ne farai più a meno. Dopo questa descrizione, suona strano,
no? Eppure. * * * Pamplona, cazzo. Ci torno quest'anno per la sesta
volta, dopo che l'anno scorso non ero venuto. Sono con un amico – e collega
-, Stefano, che per l'occasione si fa chiamare da tutti Esteban. L'auto
scivola giù da Roncisvalle. I finestrini abbassati inalano profumo di pino e
aria fresca che fa frusciare le pagine di "Fiesta" di Hemingway,
aperto sul sedile dietro. Dalle montagne dei Pirenei, distese di prati
ingialliti e vacche. Poi, di colpo, la cintura urbana. Eccoci. Per l'entrata in centro, voglio spararmi la solita
musica. Esteban è perplesso: ho il giù il finestrino, l'autoradio pompa la
"Marcia trionfale" dell'Aida a tutta manetta. Chissenefrega, è il
cinque di luglio, domani comincia la battaglia: vieni, o guerriero vindice. In città, tutto pronto: le discoteche all'aperto
piene di bandierine di fronte all'arena; le barreras per la corse dei tori; i
turisti che trascinano valige e cercano stanze disperatamente… Tutto come
sempre. Tranne plaza del Castillo. Quella è diversa, completamente bianca
passata da una sborrata di cemento e calce dopo che gli alberi che la
perimetravano sono stati tagliati tutti. Cristo!, ma che diavolo hanno fatto? Una ragazza, una lesbica che lavora in un bar di
lesbiche nel quartiere euskero, mi spiega: la sindaca ha ordinato di segare
gli alberi. Lo hanno fatto di nascosto, nottetempo. La lesbica è incazzata
nera. Annuncia che la sera è in programma una manifestazione di protesta.
Porta una maglietta attillata con la scritta MARITRINI. Mi chiede se ci sarò
anch'io, stasera, a manifestare con loro. Le dico: «Dammi una cerveza».
Esteban domanda cosa sia quel MARITRINI che ha sulla t-shirt. Lei spiega che
Maritrini è una cantante «mucho, mucho caliente. Lesbian». Ma vah?, sai che
non l'avrei detto, cara la mia Saffo? Mentre ci spilla le birre, Esteban promette che ci
saremo anche noi, stasera, in piazza contro il sindaco che ha fatto mozzare
gli alberi. Lei mi guarda. Mi tocca dire: «Ok, ci sarò anch'io». Porca
puttana, io avevo in mente altro, che partecipare ad una manifestazione
politica. Pffffhh, Esteban è così. Prima di andarcene, sia lei che le sue
amiche ci baciano sulle guance. Neanche fossimo vecchi amici. Sotto il sole giaguaro, setacciamo la città torrida
a caccia di una stanza. Tempo perso. Cento euro a testa. Qualcuno si abbassa
un po': centoventi per due. Uno arriva pure a 90 euro in due. Ma la stanza è
un buco. Fanculo, la solita storia, tutti gli anni. Appena in strada, sputo per terra. Prendiamo la
macchina e ce ne usciamo, direzione Roncisvalle. Proviamo qua e là nei
paesini, finché a Larrasoaña, pochi chilometri a est, la fortuna che non ti
aspetti: sistemazione in un villino che offre alloggio ai pellegrini sulla
via di Santiago de Compostela. La stanza, una camera con bagno a parte ampio e
luminoso, costa 16 euro a zucca. Sotto c'è un bel giardino e il dirimpettaio
ha pure la piscina. Ventura e Pilar, si chiamano così i due anziani – marito
e moglie - che ci ospitano, ci danno le chiavi, ci dicono di fare come a casa
nostra. Il vicino, un quarantenne con un paio di pargoletti che si porta
sempre in giro, appena vede che scarichiamo i bagagli, si ferma a sparare due
puttanate. Dice che domani andrà a bere a Pamplona, che tutto sarà chiuso per
la Fiesta e nessuno lavora. «Sono tutti a bere vino, birra e calimocho»,
spiega. E mima col pollice alla bocca, nel caso non avessimo capito. Il calimocho
è porcheria: cocacola e vino mischiati. Fa venire la cagarella, ma qui,
soprattutto i giovani, ne vanno matti. Ah, se vogliamo – aggiunge – possiamo
fare il bagno nella sua piscina. Ecchecazzo, altroché se ce lo facciamo un
bel tuffo nella tua splendida piscina. Abbiamo anche il costume! * * * Dopo una bella nuotata, faccio una doccia e mi
rado. Poi prendiamo la macchina e filiamo giù, di nuovo verso Pamplona. Il
sole è ormai una palla rosso fuoco e conferisce un aspetto poetico anche alla
strada d'asfalto sfatto che fende i pascoli in fase di viraggio. Viste
adesso, le pareti delle case di Pamplona sono dorate. La luce morbida avvolge
tutto in colori vibranti, una tonalità senza ombre dure che, anche da
distante, fa risaltare particolari insospettati alla mercé del chiaroscuro
violento di mezzogiorno. La città sembra davvero adagiata e rilassata, nel
tenue bagliore del crepuscolo. Bella. Aahhh, musica! Ho voglia di bere un goccio, subito.
Fortuna che in auto c'è la mia scorta personale di rum. Parcheggiamo e torniamo nel quartiere euskero. È
pieno di gay, squatter, tossici, e naturalmente di turisti. Un paradiso
sognante, ovattato dall'alcol e dall'hascish. Mi muovo meglio sull'alcol. La
birra costa poco. Nei supermercati, che da oggi stanno aperti 24 ore, un
litro di san Miguel costa 0,80 euro. Ce ne compriamo un po' e beviamo seduti
per terra vicino a un gruppo di hippy che si passano una canna. Esteban
smania, glielo leggo negli occhi. Poi lo dice chiaro, mescendo il tutto con
una certa filosofia sulle esperienze da fare, la conoscenza, i mondi
paralleli e tutto un filotto di vaccate. «Sai cos'è? È che non capisci un cazzo e vieni a
far prediche», gli dico. Mi guarda e fa: «Vado predicando. Embè?». A quel punto cosa puoi ribattere? Alle undici è buio strafatto. Come ci aveva detto
la Maritrini, inizia una manifestazione contro il sindaco. Pardon, LA
sindaco. Tutti iniziano a fischiare senza ritmo. Battono con
legni contro i cassonetti; scuotono e picchiano le inferriate dei negozi. Due
corrono con una sirena in mano. La fanno ululare collegandola alla corrente
dei bar. Si spostano di continuo: un minuto qua, poi filano di là, poi in un
altro posto ancora… Lo dico: quella sirena mi scassa la minchia. Assieme allo
sferragliare dei cancelli e al rimbombo dei bidoni, evapora anche odore di
piscio. Fa caldo, sudo, ho la camicia fradicia sulla schiena e sotto le
ascelle. Situazione insopportabile. Vado a bere nel bar Etxia, lì a fianco. Chiedo della birra in spagnolo castigliano e il
tipo che serve finge di non capirmi. Vorrebbe solo clienti che parlano
euskera. Paziento. Gliela richiedo. Niente. Allora mi va il sangue alla testa. «Hijo de puta, vediamo se questo, in castigliano,
lo capisci, eh? E questo, in italiano, brutto rincoglionito testa di cazzo…
Ma guardati, con quella faccia da idiota che cazzo di rivoluzione vuoi fare,
eh? Spini birre a chi ti paga tutto l'anno, muto come un pesce, ecco la tua
rivoluzione, servo! E oggi, perché in questa topaia ti entrano due persone di
più ti permetti anche di fare il figo? Ma vaffanculo.
RIVOLUZIONARIO-DEI-MIEI-COGLIONI. Non sai neanche chi sia, tu, il dottor
Ernesto Che Guevara. Puah». Esteban mi salva portandomi via, mentre il barista
accenna un sorriso come dire che ha capito, ma che continua a far finta di
non capire. Non so come spiegare, queste cose mi mandano in bestia. Con la sua solita flemma, Esteban dice che hanno
ragione, che è la loro lingua, che non devono annacquare le loro origini e
tutte quelle cazzate lì. Ovvio che a me non me ne frega un tubo, non è certo
il momento di farmi un pistolotto, questo. Eppoi Pamplona si è inventata
basca adesso, visto che fino a qualche anno fa non c'era nessuno che parlava
euskera. «Brutto coglione, anche tu… Altro che Esteban, d'ora in poi ti chiamerò
Etxia, come il bar. Così non mi scordo il nome». Ma lui è contento uguale,
adora queste cose che sanno di rivoluzione. Anche se alla fine siamo rimasti
a becco asciutto. Torniamo a Larrasoaña. Lassù è silenzioso e fresco.
Ci sediamo in veranda coi signori Ventura e Pilar. Ci offrono un bicchierino
di Patxaran, il liquore tipico navarro. Dicono «Osasuna», che sta per
«Salute», ma è anche la squadra di calcio di Pamplona. «Osasuna» e bevo.
Ormai mi è passata. * * * È il sei di luglio. Il giorno del Chupinazo,
l'inizio della festa (quest'anno cade di domenica). È anche il giorno degli
aumenti. Per quella bottiglia di birra che fino ieri sera costava 0,80,
adesso ti sifonano 2 euro. Non c'è un angolo in cui rifugiarsi dalla gente.
Impastoiati nella calca, come in autobus all'ora di punta, non ci si muove
lungo la strada, non si riesce ad entrare nei bar. A mezzogiorno in punto esplode la festa e tutti –
vestiti di bianco con foulard e fusciacca rossi – stappano bottiglie, tirano
panini, si spiaccicano schiuma da barba e pastelle d'uovo sui capelli, bevono
a canna e si sbrodolano la maglia, i pantaloni. Poi, in marcia. Lungo le strade del centro la bolgia sembra un
corpo unico, magmatico, bianco e rosso, che si muove lento, ma si muove.
Tocca seguire. Giù da plaza de l'Ayuntamiento, verso plaza Castillo e paseo
Sarasate. Poi di nuovo dentro, lungo le vie del centro storico ormai
consacrate a simulacro della bottiglia rotta. Non me ne frega un cazzo: ho
gli scarponi. Certo però che se uno arriva lì con le spadrillas… Con Etxia (il nervoso di ieri mi sarà passato, ma
il nome gli resta!) seguiamo il serpentone – tutti ubriachi – e le varie
bande che suonano musiche di ogni tipo. Anche noi beviamo birra. «Come mai hai ancora la camicia così bianca?», mi
chiede una ragazzina. E intanto mi spruzza il vino da un otre di pelle. «Era bianca»,
preciso. Lei ride. Pare aver colto il mio puntiglio. Ma
continua a spruzzare. Etxia si sta facendo inondare da tutti la sua splendida
maglietta con la scritta Maritrini (appena ho girato l'occhio, se ne è fatto
vendere una dalla lesbica). Ora è più rossa che bianca. «La terrò sempre
così, senza lavarla. Per ricordo», dice. Finiamo in un centro sociale. Ci si arriva da una
porticina. Lungo un corridoio si sbuca in un grande cortile interno. La birra
costa un euro e c'è un cartello: fuori gli sbirri. Etxia è un angioletto al
settimo cielo. Brama bagni d'umiltà. Sembra volersi riscattare dal destino
che gli ha assegnato una posizione da ricco (garantisco che lo è, di
famiglia). Cerca storie. Avventure che lo liberino temporaneamente dalla
routine. Cerca locali brutti, topaie. Vuole vivere da povero. «Sei un coglione – gli dico –. Tu ignori, o fingi
di ignorare, un dato semplice-semplice: non sei povero. È inutile che ti
danni l'anima per dare di te stesso un'idea diversa. Anzi, vuoi sentirne una?
Questa tua presa di posizione, se dovessero saltare fuori le tue origini,
diventerebbe addirittura irritante, per i veri poveri. Perché, vedi, la
povertà non è una scelta. Soprattutto per chi la vive 24 ore al giorno. Io,
piuttosto, posso proclamarmi povero senza tema di smentita. Anzi, offrimi una
birra». «Ma vaffanculo, vah!». * * * Diavolo! Giornata pesante, ieri. Ci alziamo tardi e
perdiamo il primo encierro dell'anno, previsto come sempre per le otto.
Ancora mezzi sbronzi: meglio rimanere a Larrasoaña, nel giardino di Ventura e
Pilar a prendere il sole, leggere un po', fare bagni nella piscina del vicino
che anche oggi è a bere a Pamplona con moglie e bambini. Mi piace quel tipo. La signora Pilar ogni tanto sbuca sul balcone e ci
fa segno di aver preparato qualche cosa: una volta prosciutto e melone;
un'altra volta insalata con la maionese. C'è sempre qualche birra ghiacciata.
Cazzo, un peccato dover morire. La sera stiamo in veranda coi vecchi: chiacchierata
rilassante a base di Patxaran. Mano a mano che beve, Ventura alza il volume
della voce. Comincia raccontando del freddo che d'inverno si patisce, da
queste parti. Dice di un pellegrino brasiliano diretto a Santiago de
Compostela: disperso a novembre, fu ritrovato a marzo completamente congelato
sui monti qui sopra. E, ridendo, indica con il braccio un punto lì davanti,
nel buio. Ride anche Pilar. Dice che Ventura ha una comicità macabra. Lui
ripete due volte la storia, insistendo molto sul fatto che – quando lo
ritrovarono – il brasiliano aveva congelata sul viso un'espressione ebete,
come se ridesse. Ovvio, era ibernato. Ma evito di farglielo presente. Due giornalisti che non fanno domande? Eccezioni da
cornice buona: non è il nostro caso. Tormentiamo Ventura e Pilar sull'Eta.
All'inizio stentano un po'. Espongono solo versioni ufficiali. Dicono: l'Eta
sbaglia a comportarsi così. Sbaglia a fare attentati. Sbaglia a uccidere.
Patxaran. Ora cominciano a dire che la lingua euskera è molto, molto più
antica del castigliano. Patxaran. Ventura dice: «Aznar – che lui chiama
"El da el bigote", "Quello coi baffi" – sta facendo danni
enormi e limita l'autonomia basca». Patxaran. Dice che negli ultimi vent'anni
anche a Pamplona è aumentato il numero di chi parla euskera (da 1% a 22%).
«Eppure – precisa – Pamplona è Navarra, non c'entra molto con le province
Basche». Le cita segnandole con le dita: Guipuzcoa, Euskadi e Alava. Sia
Ventura che Pilar sono di Bilbao e, Patxaran su Patxaran, ecco la loro natura
basca. Oh, la! Ormeggi mollati: «L'omicidio di Carrero Blanco, il 20 dicembre
1973, è stata una cosa inevitabile, finanche giusta, tra quelle fatte
dall'Eta». Patxaran. «"El da el bigote" non rispetta lo statuto di
Guernica sulle minoranze basche, vidimato nel 1980». Ormai è notte piena.
Tutto nero come il carbone, e non passa un'automobile a morire. Se smettiamo
di parlare, si sente il frinire delle cicale. Nient'altro. Ci dicono che
quando erano giovani, appena arrivati ad abitare lì, spesso passava una
pattuglia della polizia per tenerli d'occhio. E ogni tanto succede ancora
oggi, sebbene con meno frequenza. Cambiamo traiettoria. Puntiamo i nostri flussi
cerebrali su un'altra faccenda: l'Opus Dei. «A Pamplona controlla tutto»
sentenzia Ventura. Pilar annuisce. Dice d'Escrivá de Balanguer, il fondatore.
Sarebbe arrivato lì da Saragozza. Racconta del dominio Opus Dei su università
(lui ha mandato il figlio a studiare a Madrid, proprio per sottrarlo a questo
giogo) e mondo del lavoro. Pilar perfeziona le secche frasi di Ventura, le
specifica: ma su tutto sono d'accordo. Verso l'una e mezza Ventura beve l'ultimo. Si va a
dormire. Domattina c'è il secondo encierro della Fiesta. Ci dà appuntamento
alle otto precise, davanti alla tele. Ventura dice che l'encierro si vede
molto meglio alla tivù. «E non si rischia di essere incornati», aggiunge.
Faccio notare che anche eminenti personalità corrono l'encierro. «Lo
scrittore James Michener o Manuel Patarroyo, quello che ha scoperto il
vaccino della malaria, per dirne un paio». Ventura alza le spalle e allarga
un poco le braccia senza voltarsi mentre s'incammina verso la sua stanza. * * * Alle otto meno due minuti scendiamo dalla camera.
Ci aspettano Pilar e la colazione. Ventura non c'è. La signora dice che suo
marito resta a vedere l'encierro in camera. Etxia non l'ha mai visto,
l'encierro. Vorrebbe sapere qualche cosa di più. Ma non c'è tempo per
spiegare. Stanno inquadrando i tori, sette animali con attorno un po' di
manzi che dovrebbero accompagnarli per le strade di Pamplona. Da lì fino
all'arena, 850 metri all'impazzata nel cuore della città, in mezzo a
centinaia di persone che corrono con loro. Esplode un razzo. I tori sono liberi. Si capisce
subito che non sarà tranquillo, questo encierro. I tori non restano uniti. Si
disperdono. Entrano alla rinfusa in mezzo al fiume di folla in corsa. Quando
si disuniscono sono pericolosi, difficili da controllare. Ne tieni d'occhio
uno e perdi di vista gli altri. A gettare uno sguardo distratto, gli animali
sono più di dieci. Ma quelli da temere, correndo in strada, sono i sette
tori. Quelli incornano, i castrati no. Ora basta chiacchiere. Alla rinfusa, impazziti con le bave alla bocca, gli
animali corrono furiosi lungo le strade transennate. Qualcuno perde
l'equilibrio, scivola a terra. Bestioni da 500 chili che schizzano come
saponette sull'acciottolato. Meglio non essere in traiettoria. Un toro è
fermo. Sbava rabbia. Si gira di scatto e incorna un uomo. Sembra un vecchio e
finisce a terra. Il toro lo incorna ancora, e ancora. L'uomo è inerte, si
direbbe un manichino, ma c'è sangue che cola sui pantaloni strappati dalle
cornate. Due o tre coraggiosi cercano di distogliere l'animale dal suo gioco;
lo tirano per la coda; uno usa il giornale arrotolato per colpirlo sul dorso
e poi scappare. Finalmente il toro si scansa. Di corsa, arrivano gli ultimi
manzi e se lo trascinano via, verso l'arena. L'uomo resta disteso sulla
strada. Infermieri in giacca arancione saltano le barreras di legno massiccio
dove sono arrampicate migliaia di persone. Portano le prime cure al ferito.
Lui comincia a muoversi. Poi ecco l'ambulanza. Mentre lo caricano, il ferito
alza il capo. Saluta una telecamera che è lì per inquadrarlo. Sembra contento,
soddisfatto delle sue punteruolate. Sì, è un vecchio. Avrà almeno
settant'anni. Ventura sbuca fuori dalla sua stanza ridendo.
Ricorda la faccia dell'incornato e lo sfotte. Ribadisce che l'encierro è
meglio guardarlo alla tivù. «Ehi reporter, domani andiamo sul posto» dico a
Etxia, impermeabile alla tesi di Ventura. «Sicuro». Per la cronaca, il Diario de Navarra del giorno
dopo riporta: il ferito, tal Al Gleen Chesson, è americano. Corre encierri
dal 1981. In questo periodo stava anche preparando una maratona. Tre cornate
nella gamba destra. Nove punti di sutura sulla fronte. Un occhio pesto. Ecco
il bilancio della sua impavida sfida col "cebada gago" chiamato
Hormigón. Per un po' Al Gleen la maratona se la scorda. * * * Torniamo a noi. Quella sera usciamo a mezzanotte.
All'encierro del mattino ci si deve preparare con un dritto, niente letto. Ci
accompagna una bottiglia di Martini rosso. Mi sta perfettamente nella tasca
davanti dei jeans. Tutti i locali sparano musica a pallettoni, dura
prova per l'umano apparato fonoassorbente. Gente dappertutto. Una luce
tagliente marca le ombre e illividisce le espressioni. Si balla al ritmo di
musiche spagnoleggianti. Confesso: mi
fanno cagare. Ricky Martin, roba del genere. Strano, solitamente vanno i
classici dance anni '70. Quest'anno, nisba. Ma siamo qui, a Pamplona. Tutti
ridono, cantano, ballano. Questi locali stracolmi mi evocano ricordi. Ad
esempio Maria, una cantante con un sole tribale tatuato sulla spalla. L'ho
conosciuta ad una fiesta di qualche anno fa. Non l'ho più rivista. Più
un'epifania, che una storia. Mi pare si chiamasse Castillo, di cognome. O
forse Carrillo… Boh. Etxia è subito in forma. Muove il collo come un
telescopio. Un paio di ganze gli entrano nel campo visivo. Sviluppa il suo
piano. Per me fa acqua dappertutto, ma lui è convinto. Dunque. Sfruttando la
bottiglia di Martini rosso che abbiamo, offre da bere ai maschietti assieme
alle ragazze. Vuole farseli amici. E spera che poi – non ho ben capito
secondo quale principio – gliele presentino. Naturalmente quelli bevono (il MIO
Martini), ma non presentano nessuno. Del resto, solo un mentecatto
presenterebbe la propria donna ad un altro, durante i sanfermines. Lo lascio alle sue strategie da Rommel, con tanto
di Martini, e mi avventuro nella giungla etilica a caccia di un supermercato.
I ciottoli rettangolari dell'Estafeta sono coperti da sozzura d'ogni tipo:
bottiglie, bicchieri di carta, foulard, vomito. Nel marasma, seguo il mio
istinto e trovo in fretta il negozio. Compro una bottiglia di Rum Bacardi
invecchiato 5 anni. Chiedo una forbice robusta. Faccio saltare il
tappo-dosatore sotto gli occhi divertiti del commesso. «Ora posso pagarla»,
dico. «14 euro», dice. «Cazzo», dico. «Eh, amico, a San Fermin è così», dice.
E ride. Torno da Etxia. Il suo piano ha subìto una
variazione. Ora le pollastrelle sembrano un obiettivo sfocato: è seduto sul
marciapiede con le gambe rannicchiate sul petto, in anchilosato diapason.
Sono i giovanotti spagnoli a passargli da bere. Meglio così, penso. Ma non ha
più lo smalto di prima. Appena mi vede sorride. Si alza a fatica e, mezzo
barcollante, mi chiama in disparte. «Cristo, amico, non hai per niente una bella cera»,
gli dico. Mi fa sì con la testa. Dice che deve vomitare. E sparisce in un
vicolo lasciandomi in quel languido trionfo di carni accaldate, in balia di
lascive spagnole e musiche calienti. Ricompare verso le cinque, un paio di
ore dopo, di nuovo col sorriso acceso. «Dammi un goccio di rum». «Ecco. Vacci piano, poi si corre», replico. «Sei scemo?». «Tu che dici?». «Che sei scemo lo so. Intendevo per la corsa». «Beh, allora sono scemo due volte perché io ho
intenzione di correre. E con questi stivali ai piedi. Passo e chiudo». Quando, verso le sette, cerchiamo un buco alla barrera
sulla curva a gomito tra le strade Mercaderes e Estafeta, chiedo a Etxia di
tenermi la bottiglia di rum. Meglio, quello che rimane. «Perché?». «Io corro». «Non fare cazzate». Conversazione interrotta. Ci distanziamo; ognuno
cerca la postazione migliore. Con gli idranti, gli inservienti puliscono la
strada dai pezzi di vetro delle bottiglie rotte. Nel contempo la rendono
viscida. Va detto: le barreras sono due. Tra una e l'altra c'è un piccolo
corridoio per gli infermieri. Inoltre: se qualcuno che corre in strada si
piscia sotto può saltare fuori senza essere impedito dal pubblico
trasbordante. Pochi minuti alle otto. Un botto. La via è invasa
di persone pronte all'encierro. Uomini, giovani, vecchi, donne. Qualcuno fa
stretching, altri si scaldano i muscoli, provano scatti brevi come sportivi
pronti ad una gara. Che cazzo, siamo a Pamplona, mica alle olimpiadi. Un
altro botto e la gente corre. La pietra del lastricato inizia a tremare come
ci fosse il terremoto. Terremoto forte. Se mi concentro comincio ad
avvertire, tra urla e tumulti, il ritmico trepestio dei tori. Ci siamo. Salto sulla barrera, schizzo sulla seconda e mi
passano sotto i tori. Salto giù, in strada e inizio a correre appresso agli
ultimi che sono passati. Un toro e tre manzi. Un'iniezione di adrenalina. Se
si girano, sono lì. Duecento metri, ecco l'arena. I tori incanalati
nell'ingresso da un imbuto di uomini immobili, accalcati uno sull'altro.
Stravolto, mi fermo. Torno verso il punto dove ho lasciato Etxia, ma lo vedo
arrivare, in strada. «Bello eh?», mi fa. «Già. Meglio andare a dormire. Oggi pomeriggio
torea El July». * * * Nella mia vita ho visto più corride che partite di
calcio. Così dico subito a Etxia che non intendo scucire più di 20 euro per un
biglietto che ne valga 15 o 17. Alle quattro e mezza siamo davanti all'arena.
Un piazzale coperto da alte piante di platano pieno di bugigattoli da
souvenir e bagarini che spacciano biglietti per la corrida. Al botteghino
sono finiti, loro ne hanno a bizzeffe. Sono 20 o 30, a trafficare. I ticket
da 17 euro ce li propongono a 50. Che io sia maledetto se te lo compero,
bagarino del cazzo. Proviamo ad aspettare. Magari con l'avvicinarsi
dell'inizio della corrida, i prezzi calano. Niente! Contrattazione pittoresca. Questi derelitti umani
dall'alito alcolico e ogni rogna addosso urlano, piangono, si dannano, si
arrabbiano. Prefiche ad un funerale; eppure non mollano di un euro, i figli
di puttana. Il mercato è in mano a strampalate comparse che – senza far fila
– riescono sempre ad accaparrarsi tagliandi d'ingresso a pacchi. La polizia
vede, altroché. Ma fa finta di niente. Uno gira mostrando il prezzo scritto
sul display del telefonino. Capito: non arriveremo mai ad avere i biglietti ad
una cifra accettabile (preferiscono tenerseli, che venderli al prezzo
ufficiale). Allora Etxia si diverte a provocare i bagarini con proposte che
loro giudicano irriverenti. Chiede due ticket a 10 euro, quando gli erano
stati proposti a 45 l'uno. Uno urla e ci insulta; un altro se ne va e basta.
Uno pensa di aver capito male e invita Etxia a scrivere la sua offerta su un
pezzo di carta. Quando vede 10 euro, ci indica un cinematografo, cento metri
in là. Mezz'ora dopo l'inizio della corrida, i prezzi sono ancora
esorbitanti. Rinunciamo. Meglio un paio di Anis de toro mentre attendiamo
Matteo, chitarrista jazz, e Stefy. Loro sono alloggiati a San Sebastian ma
stasera abbiamo appuntamento a Pamplona verso le otto, in plaza Castillo. Ci
saranno anche Ilaria e Fabiana, due amiche arrivate dall'Italia. La sera, ritrovati tutti, ci sediamo all'Iruña,
alla Hemingway. Beviamo qualche birra e parliamo. «Osasuna». Poi saliamo ai piani superiori di uno dei locali
della piazza. Sopra: balere per chi ama ballare il liscio. Mi ero sempre
chiesto dove fossero quelli che non cercano "la locura", come dice
la signora Pilar. Il casino da matti, si potrebbe tradurre. Sono quassù. Ci
si affaccia sull'enorme plaza del Castillo che, senza alberi e con quella
gettata bianca, fa davvero schifo. Stiamo ancora un po'. È calmo da qui. Si beve e si
parla, tranquilli. Poi, verso l'una ci lasciamo. Matteo e Stefi rimangono per
l'encierro di domani. Ilaria e Fabiana hanno l'aereo a Girona per tornare in
Italia. Etxia ed io abbiamo una stanza prenotata a Barcellona. Ce l'ha
prenotata Martin, un comune amico argentino. Non possiamo dare buca. Addio Pamplona. Anzi, arrivederci. Scrivi
all’autore: mauriliobar@libero.it |
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