Maurilio Barozzi
Melandri, dalle curve alle onde
martedì 11 settembre 2007
TORBOLE SUL GARDA - Marco Melandri, pilota di moto Gp, in mezzo al lago, su un catamarano. È una notizia! Lui scosta gli occhiali: «È la prima volta che vengo sul Garda. Anzi no: ero stato a Desenzano per un evento».
Non è il suo ambiente, questo. Lui è abituato al rombo dei motori, all’odore di gomma bruciata e di benzina. Accompagnato dal placido sciabordio dell’acqua, pare proprio fuori luogo. Ma il brivido della velocità ha voluto provarlo anche sul catamarano. E si è anche divertito: «Ma la paura che provoca l’asfalto è un’altra cosa», aggiunge.
Già... Marco Melandri a vederlo in faccia, senza casco, senza tuta, senza moto tra le gambe, è quello che è davvero: un ragazzo di ventiquattro anni che ne dimostra anche meno. Il viso simpatico, solare, sorridente; una disponibilità che non ha niente a che fare con quella di certi arroganti diventati famosi non si sa bene perché.
Lui famoso lo è per un motivo ben preciso: sa cavalcare una moto a trecento all’ora. Lo fa nei circuiti del motoGp e nell’ambiente è considerato uno dei più forti: a livello di Dani Pedrosa, per chi sa di chi sto parlando. Lì lì con Valentino Rossi, per farlo capire a tutti.
Racconta che sul catamarano ci era già andato, una volta, in Tunisia. Ma qui a Torbole è tutt’altra cosa: «Mi hanno anche fatto guidare. Bellissimo.
Spero di venire ancora qui, ma purtroppo per me il tempo è una risorsa davvero limitata». Ma come? Un ragazzo di 24 anni pieno di soldi che gira il mondo e pure qui ha quattro o cinque ragazzine che lo aspettano fuori a caccia di un autografo, non ha tempo per sé stesso? Sorride. «Siamo sempre nei circuiti. Riesco a vedere un po’ le città in cui andiamo a correre, solo se le gare sono in due domeniche consecutive: appena finita la gara possiamo partire subito verso la nuova destinazione: così il giorno dopo ho tempo per andare a correre o visitare la città. Se c’è un’interruzione settimanale, invece, finita la gara si resta un paio di giorni in pista per effettuare test. Poi si torna a casa ma sono stanco e di solito uso il giorno libero per riposare. Dopodichè siamo di nuovo al lavoro, senza soste». Altro che viaggiare e spendere soldi all’americana e andare a donne...
A proposito, Marco, dove hai la residenza tu? In Italia o in giro per il mondo come Valentino Rossi? «Sono inglese anch’io», risponde. Uhmmm...
Meglio tornare alle gare.
A quattro anni i suoi lo hanno messo su una moto. E lui non ci è più sceso. «Un Malaguti 50 - racconta -. Mio padre era appassionato, e sono cresciuto tra motori e riviste. Era inevitabile che diventassi un pilota».
Un pilota sì, ma per essere un campione ci vuole ben altro. Infatti lui si allena ore e ore tutti i giorni, anche in palestra. «Non faccio fatica, anzi: mi piace. Poi serve molto per prevenire gli infortuni, che nel nostro lavoro sono piuttosto frequenti. È il mio preparatore a dirmi di non esagerare. Ad esempio mi impone di non andare oltre le due ore con la bicicletta, sennò magari io farei di più».
L’unico rammarico Marco lo ha per quanto riguarda l’ultima stagione. «Non sono molto contento. Ci sono stati bei momenti, ma mi aspettavo di più. Spesso noi della Honda abbiamo pagato la mancanza di cavalli: nei circuiti veloci è troppa la differenza con altre moto e se ti manca potenza non puoi pensar di competere». Allora, cosa manca a Melandri per essere un pilota perfetto? «Perfetto? Uhmm... Non saprei... Penso che una cosa che mi manca è un test con una moto ufficiale». Mentre il tuo lato forte? «Il sorpasso».
Si dice che alcuni piloti siano ottimi perché conoscono bene la moto e sanno dare i giusti consigli ai meccanici. Lui scuote la testa: «Fesserie. Il pilota deve fare il pilota, trovare traiettorie. Per la moto ci sono gli ingegneri.
Io devo spiegare nei dettagli le imprecisioni, questo sì, ma non certo intromettermi. Sarebbe come se l’ingegnere mi dicesse come devo guidare.
Se lo sa fare, lo faccia lui. Vuoi che ti dica una cosa?». Sono qui apposta.
«Se io dovessi smontare la moto, non la saprei nemmeno rimontare, anche perché ormai è tutta elettronica».
Maurilio Barozzi
L’Adige 11 settembre 2007
L’ARTICOLO