Maurilio Barozzi
Cartoline da Doha 4 - Febbre da Rimet
martedì 21 dicembre 2010
DOHA (Qatar) - E così ora l’idea è stata anche messa su carta. Mi riferisco di giocare i mondiali di calcio del 2022 in Qatar d’inverno. L’inverno boreale, naturalmente. Lo ha detto prima Beckenbauer, l’ha ripetuto Platini. Ora lo dice, sommessamente come è suo costume - mai sbilanciarsi troppo, politica docet - pure Blatter.
Hanno capito, alcuni giorni dopo averli assegnati al Qatar ufficialmente, che qui l’estate è un caldo boia. Okay, cingalesi, indonesiani, pakistani lavorano lo stesso. Ma il caldo è opprimente. Anche 50 gradi. E allora, hai un bel dire che tanto i progetti degli stadi che ha presentato l’emiro hanno l’aria condizionata e si giocherà a 24 gradi. Ma poi? Un mese di ritiro per le squadre in una pietraia incandescente con gli allenamenti da fare e tutto il resto: a 40, 50 gradi è un po’ improbabile. Dunque si pensa all’inverno, cioè questo periodo. Beh, per il clima la cosa potrebbe funzionare: si arriva attorno ai trenta gradi a mezzogiorno, ma la sera è fresco e si potrebbe anche risparmiare il condizionatore dello stadio.
Anche se non è certo il risparmio l’ambizione dell’emiro. Il fatto è che giocare d’inverno significherebbe stravolgere campionati e coppe europee, e questo ha fatto inorridire i più. Che però non pensano al fatto che finora, molti altri hanno avuto - e hanno - lo stesso problema. In Brasile, ad esempio. Dove, con la proverbiale soavità di una bossanova, hanno tranquillamente risolto il problema: il campionato va avanti. E buonanotte. Sì, ma ormai tutti i giocatori brasiliani della nazionale sono in Europa, obietta il più furbo. Fingendo di non accorgersi che quell’«ormai» implica che fino a qualche tempo fa non era così. L’Eurocentrismo a volte è difficile da scalfire. Comunque: i mondiali in Qatar. Qui è una festa. Sulle vetrine dei negozi, appiccicate alle bancarelle, sui vetri delle macchine trionfa l’effige dello sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani in abito blu che con un sorriso a trentasei denti sorregge la coppa Rimet. E’ la sua vittoria, prima di tutto. La vittoria di chi, grazie a petrolio e gas naturale a bizzeffe, ha reso il suo paese più moderno e si è fatto conoscere in tutto il mondo. Cosa alla quale pare tenga molto, a giudicare dal fatto che - oltre a quella con la Rimet - in ogni dove si trova la foto sua e del rampollo (stavolta con il turbante bianco). La creazione a suon di milioni di dollari della televisione Al Jazeera ne è un altro esempio. E la stessa grande ospitalità che lo sceicco offre allo sport lo conferma ulteriormente: un gran premio di Moto Gp, il torneo Atp Exxon Mobil Open di tennis più il master femminile, i Giochi asiatici di atletica, i mondiali per club di volley, la coppa del mondo under 20 di calcio e nel 2022 i mondiali, illustrano il desiderio che il mondo gli faccia visita per vedere quanto è bravo.
Che lui stesso si esibisca in gare in motoscafo potremmo invece pensare che sia solo una passione sportiva, anche se il fatto che ne vinca pure qualcuna, lascia molti dubbi... Guardando bene: che ragione avrebbe un turista per venire a Doha, senza questi richiami? Una città-cantiere dove si lavora anche la notte con le gru illuminate a giorno e in un batter d’occhio si costruisce una edificio. Se serve anche fintamente invecchiato.
Già, fintamente. Perché qui a Doha non esistono cose vecchie: quando si è stufi, si abbatte. O, più generosamente, si esporta. Si regala, come si farà con gli stadi dopo i mondiali. Dal suo punto di vista, lo sceicco è davvero una persona generosa. Quando può aiuta, anche all’estero. Salvo poi, al giusto momento - e il momento è arrivato ai primi di dicembre di quest’anno, ad esempio - incassare a sua volta i frutti della beneficenza.
Avrebbero qualche cosa da dire sulla liberalità dello sceicco probabilmente anche i lavoratori stranieri. A Doha rimangono il tempo della durata del contratto, guadagnano un po’ di soldi, e poi se ne vanno. Ma non possono farlo prima. Mi spiega Abdul Rob, del Bangladesh, che si occupa di sicurezza in un parcheggio: «A me, come a tutti i lavoratori stranieri, la compagnia per cui lavoro prende il passaporto. E questo mi viene restituito solo al termine del contratto di lavoro. Se, per qualche emergenza, devo tornare al mio Paese, posso chiederlo alla compagnia. Se a loro la cosa aggrada, bene. Altrimenti devo stare qui. Non mi sembra un buon sistema. Io sono qui da due anni. Ho il contratto per altri due, poi si vedrà». Stessa cosa dice Esperanza, filippina, receptionist in un hotel: «Ero a lavorare a Dubai e ora sono qui a Doha. Ho un contratto per un anno e poi mi restituiranno il passaporto. Così penso che me ne tornerò a Dubai: qui è tutto morto, non c’è vita. Guarda», scuote la testa indicando la strada assolata e vuota nel tardo pomeriggio. Ma coi mondiali forse qualche cosa cambierà, sia per il loro passaporto che per la vita su quella strada. Se sarà d’inverno.
Altrimenti ho qualche dubbio. Come qualche dubbio instilla ciò che potrà lasciare nella storia una civiltà come questa, arricchitasi da poco in maniera spaventosa, che costruisce e disfa tutto nello stesso tempo di una sgasata di automobile o di motoscafo. Senza che ci sia il tempo di sedimentare, di ripensare, di interiorizzare. Insomma, senza che qualcosa riesca a diventare il duro su cui si costruisce una vera cultura.
Maurilio Barozzi
L’Adige, 21 dicembre 2010
L’ARTICOLO
Pubblicato a pagina 49 con il titolo “Febbre da Rimet”, e l’indicazione “dall’inviato Maurilio Barozzi” sul quotidiano L’Adige del 21 dicembre 2010. Fa parte di una serie di reportage da Doha (Cartoline da Doha) scritti in occasione del Campionato mondiale per club di volley.