Maurilio Barozzi
La fame americana del pittore Depero
domenica 30 gennaio 2000
Stravaccato sulla scalinata di una stamberga, mentre faceva da modello a Fortunato Depero, Guglielmo Macconi ripensò a quel giorno, subito dopo la guerra, in cui lo conobbe nella casa roveretana del ragionier Bizzarini.
«Stai fermo, Macconi», gli urlava il pittore. Ma lui era con la testa altrove, a quella serata dal Bizzarini. Mai avrebbe pensato che poi le cose si sarebbero messe così, e che tra i due sarebbe nata un’amicizia così solida.
Da principio, ricordava, quell’uomo irascibile e confusionario, attirato in maniera quasi paranoica dal nuovo, dai motori, dal progresso, gli pareva uno che cercava amicizie influenti. Compari danarosi che lo potessero aiutare a sbarcare il lunario comprandogli qualche quadro. E magari questa prima impressione poteva anche essere quella giusta. Epperò tra loro era nata un’amicizia che superava di gran lunga il materiale interesse per i soldi.
«Macconi, stai lì. Vedrai che quadretto che ti preparo. Sta venendo una cosina coi fiocchi, eh Rosetta?; vero Anny?», si rivolgeva alle rispettive mogli. Lui era sicuro che sarebbe venuto fuori un buon lavoro. Aveva grande stima del pittore Depero. Sapeva che i numeri c’erano tutti per essere davvero un grande. A Mac — come lo chiamava amichevolmente Depero, a eredità fonetica di quel viaggio negli Stati Uniti — piaceva molto l’arte futurista. Queste pennellate secche dal tratto deciso e geometrico. Il suo preferito era Boccioni (così come lo è anche oggi), ma sull’amico Fortunato avrebbe tranquillamente scommesso. Anche per la grinta che il pittore aveva. «Non è da tutti — diceva tra sé — ribellarsi al giudizio della Biennale di Venezia perché hanno accettato di esporre solo cinque opere anziché tutte e dieci quelle che lui aveva inviato. Solo chi ha grande carattere può permetterselo. Carattere ...».
Guardava quello che dell’artista sbucava fuori dalla tela che stava dipingendo; le gambe, in un continuo e nervoso movimento. Spostava il peso del corpo di continuo, da un piede all’altro, come se la terra gli scottasse sotto i piedi. E quei movimenti rapidi non lo lasciavano mai rilassare, la sua incapacità di stare fermo per più di pochi istanti nella stessa posizione doveva aver contribuito ad accentuare quel suo tratto caratteristico, così singolare. Poi da un lato vedeva sbucare un braccio. Non tutto il braccio, solo una parte dalla spalla a metà avambraccio, che era alzato durante il disegno. Visto da dietro la tela sul cavalletto, quel braccio così piegato gli appariva come l’impugnatura di un boccale di birra. E la testa sbucava ogni tanto. Per guardare e studiare il panorama che stava riproducendo, col suo inconfondibile stile che traduceva il messaggio futurista.
«Dai Mac, non addormentarti. Finisco in un attimo. Ah... sai questo panorama mi fa venire voglia di bere un bel goccio di vino. Avrei voglia del mio preferito, lo Zignago, te lo ricordi quel rosso dei Marzotto? Ma visto che siamo sulle colline di Nogaredo — e non su quelle tra Vicenza e Treviso — va benissimo anche un goccio di Marzemino. Ehi, ma se tu bevi vino ti addormenti di botto», scherzava. E, continuando imperterrito a disegnare, quasi con frenesia, raccontò di quella volta che a New York fu sbattuto in cella per alcune ore. «Dì Mac, ti ho mai raccontato di quando a fui rinchiuso in gattabuia, la a New York? Ho preso una bella strizza, quella volta. Ti ricordi Rosetta? E tutto perché avevo fatto pipì in Central Park. Tu che avresti fatto, Mac, se ti fossi trovato in quell’enorme parco e ti fosse scappata?», e giù a ridere.
Depero era così, pensava Macconi sorridendo al racconto che aveva appena udito. Continuava a parlare, raccontare storie, aneddoti. Era pieno di vita. Fiducia. «La pace, la vita nei prati, nei boschi, al lago e nella villa, rappresentano il più bel soggiorno che finora abbiamo vissuto. Il Dio degli artisti e delle persone meritevoli (perdona l’immodestia) è veramente grande», gli aveva scritto nell’agosto del 1948 dal Connecticut, dopo che aveva dovuto lasciare la stamberga che abitava New York con Rosetta perché doveva essere abbattuta, ma aveva subito trovato ospitalità gratuita da questi signori Hillman, una ricca famiglia ebrea, amici del presidente Truman. Era il suo modo di lottare, di credere che alla fine in un modo o nell’altro le cose gli sarebbero andate bene. «Coraggiosamente ho rotto il ghiaccio e ho chiesto la mia posizione al signor Bosso — delle Cartiere Bosso di Torino — il quale ammirandomi e proteggendomi ha iniziato una discussione con Sozzi — un collega d’affari — (incomprensivo ed incapace). Finirò per vincere!».
«Dai Macconi, adesso basta muoverti, stai li fermo su quella scala. Altrimenti mi vieni mosso. Ha ha ha...»
A Mac veniva da ridere mentre osservava il futurista: se lo immaginava seduto davanti all’oblò della lavatrice, intento a sezionare, dividere, elencare uno a uno tutti i movimenti che quella ruota di acciaio incuneata nel ventre dell’elettrodomestico faceva prima di restituire i vestiti puliti. Così come glielo aveva scritto in una di quelle decine e decine di dagli Usa. Lo guardava quasi amorevole. Pensava che da quando il comune di Rovereto, in cambio delle sue opere e della costruzione del museo, gli dava un vitalizio, lo vedeva decisamente meglio, sottratto a quello che per un artista rimane il problema più difficilmente solvibile: quello economico.
Quando i suoi concorrenti, per denigrarlo, lo accusavano di disegnare la pubblicità per Campari, lui ribatteva sempre acido, ringhiando. Ma a lui, al suo amico Mac, strizzando l’occhio poteva dirlo con un calambeur: «Campari è un modo di campare». Ora poteva pensare solo all’arte; semmai organizzava ancora qualche cena per invitare collezionisti e magari vendere qualche opera; ma così, giusto per fare. Ricordava bene di quel comune amico americano che Depero non aveva più voluto vedere perché una volta gli aveva detto nel suo italo-inglese «Se con i quadri non riesci a sopravvivere, perché non ti cerchi una jobba (un lavoro)?».
«Guarda qui Mac. Ecco, questo sei tu. Cosa te ne pare?».
«E’ bello, lo compro», rispose Macconi.
Maurilio Barozzi
in l’Adige 30 gennaio 2000
(Un ringraziamento va a Luisa Pizzini che mi ha fatto conoscere il signor Macconi e ha collaborato all’intervista)
L’ARTICOLO
Pubblicato a pagina 31 sul quotidiano L’Adige del 30 gennaio 2000 con il titolo “Mi ricordo bene la fame americana che per l’arte dovette patire Depero” . Tra racconti e lettere autografe, ricostruita in breve l’esperienza americana del grande pittore futurista.