Maurilio Barozzi
Savio, il Lord delle Ande
venerdì 27 aprile 2007
TOSCOLANO MADERNO (Brescia) – Non è che non si lamenti, che non imprechi, che non abbia a criticare il sistema, le corse, qualche avversario. Ma lo fa con dei modi da lord, misurati e calmi, e con frasi ampie, altisonanti e spesso metaforiche. Il risultato è lo stesso, ma la forma rende tutto più sfumato, tenue.
Gianni Savio, team manager della Diquigiovanni Selle Italia, ha questi modi vagamente aristocratici che gli hanno permesso – tra le altre cose – di far scucire 180 mila euro alla Trentino Spa per sponsorizzare la sua squadra di ciclismo. «A dir la verità non è servito far molto – dice lui -: è bastato presentare i numeri del moriano Alessandro Bertolini per fare accettare di buon grado l'ipotesi. Ne ho parlato con Ivan Cristoforetti e la cosa si è fatta».
A vederlo, nel circo del ciclismo sembra una figura stonata, quasi un personaggio da romanzo, uno di quelli di Carpentier o di Marquez: una sessantina d'anni portati bene, capelli corti bianchi e baffetti, fisicamente ricorda molto William Faulkner, a proposito di scrittori. Con un paio di differenze sostanziali – a parte il mestiere: Faulkner proveniva dalla campagna, era taciturno e lapidario nelle frasi, come nel mandare a quel paese un suo datore di lavoro alle poste; Savio viene dalla città, Torino, discetta amabilmente, fa ampio uso di litoti e metafore. Parla del suo team ciclistico paragonandolo a una squadra di calcio «Noi non siamo l'Inter, il Milan o la Juve. Noi siamo il Parma». Per dire che secondo lui una squadra avversaria ne ha pagata un'altra per fare un ingiustificato lavoro di squadra, dice: «Certo, un atteggiamento come quello di dannarsi l'anima per andare a riprendere una fuga senza avere uomini di classifica né gente in grado di vincere la tappa, potrebbe certamente dare adito a qualche sospetto».
Gianni Savio è così, dice ciò che deve dire sorridendo. Ma lo dice. Come dice che sarebbe un'ingiustizia, dal suo punto di vista, che gli organizzatori del Giro d'Italia non invitassero – come pare – il suo team alla manifestazione: «Finora, dall'inizio dell'anno abbiamo vinto ben 21 corse ufficiali, sono altre le squadre che dovrebbero rimanere a casa».
Nel mondo del ciclismo ci entra un po' per caso e un po' per vincoli di sangue. Lui amava il calcio con spiccate simpatie per il Toro, un mito che è sempre riuscito a reagire ai salati conti che gli presentava la sorte, e per Gigi Meroni: «La farfalla granata era il mio idolo, bravo ed eccentrico, che come tutti i miti, compreso il Grande Toro, è dovuto andarsene presto. Te lo saresti visto, Gigi Meroni calvo e con la pancia?». L'incontro col ciclismo è arrivato per dna col nonno materno. Lui era stato un mediocre ciclista – fu campione nella categoria indipendenti – e poi mise in piedi una ditta di freni per bici, la freni Galli. Lui, Gianni, da buon rampollo di famiglia bene, studia Economia e commercio e poi entra in ditta. Nota che la concorrenza con i produttori dell'Oriente era una sfida titanica e così trasforma la “Freni Galli” in una azienda commerciale e comincia a interessarsi al ciclismo con costanza.
Poi, seguendo la sua inclinazione, la trasforma ulteriormente in una agenzia pubblicitaria. Stringe legami, amicizie e nel 1985 frequenta il corso per team manager della Federazione ciclistica con Italo Allodi e da allora il ciclismo diventa la sua vita, tanto che otto anni dopo riesce a fare in un anno tutti e quattro gli esami da direttore sportivo. Ma nel frattempo qualcosa era successo: nella sua vita, assieme al ciclismo, è entrato anche il Sudamerica: Colombia, Bolivia e Venezuela, in particolare.
Nel 1989 fu inviato con la sua squadra di allora, la Eurocar Selle Italia, a partecipare al Tour de las Americas, al quale partecipavano anche Gianni Bugno, Greg Lemond e Pedro Delgado, per dire. Fu amore a prima vista. Racconta: «Il Sudamerica ti entra nel cuore e ti cattura con il suo colorito, con la sua voglia di vivere, con la sua disponibilità e la sua sensualità. Le donne… Le donne sono la sua icona: generose, belle, espansive». E qui salta fuori un'altra differenza con Faulkner che invece riteneva che le donne dovessero solo dire la verità, saper andare a cavallo e, soprattutto, firmare assegni. Ma non vorrei divagare.
Il Sudamerica, dicevamo. Con la scusa di questo amore e una serie di agganci creati, Savio diventa commissario tecnico della Colombia. Il suo amore si rafforza, trova linfa e, perché no, anche denaro. Scopre talenti. Ne porta in Italia un fracco Sierra, Freddy González, Cacaito Rodriguez, Parra e Rujano per dirne alcuni. Mentre fa il ct per la Colombia prosegue anche il suo lavoro in Italia: i suoi atleti vincono tappe importanti al giro e al Tour, e lui gongola: si guadagna la fama di talent scout e qualche anno dopo pur un'altra nazionale sudamericana di ciclismo da gestire come commissario tecnico; il Venezuela.
Se gli chiedi se sia più facile trovar talenti ciclistici in Sudamerica o in Trentino lui sorride. «Il Sudamerica è molto più grande» e marca il grande con quella sua erre mezza ammosciata - una robetta alla Agnelli ma non così marcata, quasi un vezzo. Aggiunge: «Però sappi che io trattai Alessandro il Grande (Bertolini, ndr) già nel 1994, quando era ancora dilettante. Ed ora lo stiamo rimotivando per fare emergere quelle sue potenzialità che non sempre è riuscito ad esprimere, in altre squadre».
Come dire, vabbé Sudamerica, ma anche qui non scherzo: l'occhio lungo ho dimostrato di averlo, no? E allora avanti, sempre a caccia di nuove figure, avanti e indietro dal Sudamerica, come se quel viaggio fosse una lunga, bella e molto sensuale Milonga.
Maurilio Barozzi
L’Adige, 27 aprile 2007
L’ARTICOLO
Pubblicato con il titolo “Savio, lord delle Ande a caccia di talenti”, e l’indicazione “dall’inviato Maurilio Barozzi” sul quotidiano L’Adige del 27 aprile 2007.
Sull’argomento vedi anche:
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